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Archivi categoria: Personaggi

Profili 11.Luc Alphand

Un detto dei nativi americani sostiene che ognuno di noi è guidato da una mano invisibile verso il destino cui è stato assegnato. Non importa come e perché, nessuno scappare all’ineluttabile. C’è però chi sin da bambino ha la fortuna di ricevere l’illuminazione, sapere esattamente la sorte che gli riserverà il cammino ed accettarla, farla propria con determinazione. Luc Alphand appartiene a questa cerchia ristretta, il circolo di coloro che han sempre saputo tutto ed incontro al destino ci sono andati correndo il più rapidamente possibile, con qualsiasi mezzo. Non importa quante cadute debbano occorrere e quanto dolorose possano rivelarsi, niente distoglierà l’uomo dalla sua missione né ne farà diminuire l’abnegazione, specie se la missione si chiama ricerca della velocità. Qualcosa di ingovernabile, blandamente spiegabile a parole perché molto viscerale, legato al misticismo ed alle stelle. L’istinto per la velocità è un bisogno primario, costante, richiama il continuo proiettarsi in avanti nella gara infinita contro il tempo e gli avversari, la magica sensazione di essere primi, veder spianarsi davanti a sé un paesaggio sconfinato sapendo che invece alle proprie spalle restano tutti gli altri a respirare la polvere, la sabbia o gli schizzi di neve tuo gentile omaggio. Un sapore amaro che nessun vincente ama assaggiare. Un legame ancestrale la lega all’uomo, che ne è sempre stato attratto. Lui, nativo di Briançon, alpi francesi, ci si è dedicato sin da piccolo, e località esigeva la prima passione fosse riservata allo sci. Alphand ottiene eccellenti risultati sin da juniores, dove conquista medaglie ai mondiali di categoria, poi il salto tra i professionisti. Niente slalom o gigante, prego rivolgersi solamente alle specialità da temerari. Uomini jet vengono chiamatigli sciatori che si cimentano nelle discipline veloci, supergigante ma soprattutto discesa libera, dove si superano tranquillamente i 100 kilometri orari che indossando solamente un paio di sci non sono indifferenti e farebbero traballare le ginocchia alla maggior parte di noi. Non a loro, drogati di adrenalina condita da un pizzico di sana follia che aiuta a scordarsi della razionalità. Alphand si cimenta nella disciplina per anni, diventa uomo noto nel circuito sfidando il leggendario Marc Girardelli, l’austriaco naturalizzato lussemburghese, il duo dei fiordi norvegesi Kjus e Aamodt, la sempreverde batteria austriaca ed anche il nostro Ghedina, ottenendo grandi risultati. In carriera sale esultante sul massimo gradino del podio per 12 volte, combinazione di 10 discese e 2 supergiganti, occupando un posto tra i primi tre in altre 11 occasioni. Le sue stagioni ai vertici sono tre, ’95,’96 e ’97, dove conquista consecutivamente la coppa di specialità in discesa. L’anno da incorniciare tra questi però è l’ultimo, in cui il transalpino conquista la metà del bottino totale di vittorie, la coppetta di specialità anche in superG e riesce addirittura a vincere la coppa del mondo generale, tra l’altro disputando solamente le gare di velocità, evento unico ed eccezionale. Un vero dominatore. Nel suo sfrecciare lungo tutti i tracciati del circuito (trionfatore per ben tre volte a Kitzbühel, uno dei tracciati più prestigiosi nella discesa) ha meno fortuna per quanto riguarda le competizioni internazionali: a bocca asciutta nelle olimpiadi invernali, con cui ha sempre avuto un pessimo tempismo, si consola con un solo bronzo nella discesa dei mondiali spagnoli disputati in Sierra Nevada nel 1996, non a caso uno degli anni dorati. A soli 32 anni decide sia arrivato il momento propizio per defilarsi con garbo dalle competizioni sciistiche: non si tratta però di un vero ritiro, niente sci appesi al chiodo, niente tranquillo riposo dopo anni di sacrifici ed infortuni. Molto più semplicemente, ha deciso di tuffarsi in una nuova avventura: sotto i piedi non più gli attacchi per gli sci e l’oceano bianco di neve ma i pedali ed un deserto di sabbia, fango ed asfalto. Al via l’esperienza come pilota d’auto, principalmente nei rally e nelle prove di endurance. Nuovi stimoli, nuovi orizzonti, vecchia passione, in breve tempo dimostra di valere anche al volante. È così, quando ti scorre nel sangue è come il richiamo della foresta. Nel 2001 comincia la sua partecipazione alla corsa più celebre di Francia, la ventiquattrore di Le Mans, che lo vedrà al via per otto edizioni consecutive. Nel prestigioso circuito una vittoria non è mai arrivata, solo tanti piazzamenti, settima posizione la migliore, ma l’ennesima dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno, che il nostro ha stoffa e nel mondo dei motori ha diritto di cittadinanza. La sua carriera automobilistica è brillante e la passione sentita, tanto che nel 2004 arriva ad inaugurare una scuderia tutta sua, la Luc Alphand Adventures, di cui è anche prima guida, parbleu. Il team partecipa ad un sacco di manifestazioni, perfino quelle a due ruote, ed è in uno di questi rally che Alphand incappa in un brutto incidente che rischia seriamente di danneggiargli la colonna vertebrale. Fortunatamente grande è solo lo spavento, non il danno; pericolo scampato, seguono la lunga degenza e la riabilitazione per tornare a camminare, ma le corse bisogna dimenticarsele. Nel frattempo, la partecipazione ed Europsort in qualità di opinionista, perché lontano dallo sport è impossibile stare. La vera apoteosi alla guida di un’auto Alphand l’ha già conosciuta anni prima nel deserto più vasto e maestoso del mondo, che ospitava tradizionalmente la manifestazione automobilistica nota anche alle pietre ed ai non appassionati, la Parigi – Dakar. Il francese si afferma nel 2006 al volante di una Mitsubishi, sezione auto, sfiorando il successo in altre due edizioni, quelle precedente e successiva all’annata conclusa dal glorioso successo. Mica male per uno che meno di dieci anni prima serpeggiava sulle nevi di mezzo mondo sollevando la coppa del mondo di sci alpino. Passa il tempo ma il verme solitario della competitività non lo ha abbandonato, non potrà mai farlo, e quest’anno ha deciso di esplorare l’ennesima sfida, abbracciando la course au large, le regate con le barche a vela. D’altronde l’acqua ancora mancava tra gli elementi da conquistare, era solo questione di tempo. Se un domani si tenessero gare tra aerei, tenetevi pronti. Chi dovesse stupirsi non avrebbe ancora colto lo spirito che anima chi è posseduto dalla velocità, dalla volontà di non respirare mai la scia alzata da qualcun altro e di spingersi sempre all’estremo. Come Luc Alphand. Ben cantava George Harrison nel ritornello di una sua (non tanto celebre a dire il vero) canzone: “Faster than a bullet from a gun / He is faster than everyone / Quicker than the blinking of an eye / Like a flash you could miss him going by”.

 
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Pubblicato da su 14 luglio 2011 in Personaggi

 

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Profili 10.Didier Drogba

“Segnare, segnare! Per questo devi giocare, è quello che vuole la gente no?” dovevano suonare più o meno così le parole che Michel Goba pronunciava al nipote, frugoletto che muoveva i primi passi in una squadra di calcio incominciando come terzino. Da quel giorno il ragazzino smilzo decise che il meglio lo avrebbe fatto vedere nella posizione di striker, al centro dell’attacco, e così fu. Didier Drogba non si guardò più indietro. Scordatevi le solite struggenti storie di povertà, di bambini cresciuti per le strade delle bidonville assieme ad una nidiata di fratelli sgomitando nella vita alla ricerca dell’opportunità che li facessero brillare. In questo caso, citofonare ad altro indirizzo, probabilmente in un quartiere borghese di Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio, dove Drogba ha vissuto fino ai cinque anni. Figlio di una famiglia agiata, entrambi i genitori lavoravano in banca, a quell’età decisero di pensare all’istruzione del figlio, spedendolo in Francia sotto la tutela dello zio, giocatore professionista ed itinerante di calcio che tanto aveva premuto per l’arrivo del piccolo. Un biglietto per la Francia, questo sì un percorso molto comune per tutti gli abitanti degli stati africani appartenenti alle ex colonie dei blues. Nel caso di Drogba però, in classe privilegiata. Sul suolo transalpino trasloca per tre anni, a otto compie il tragitto inverso tornando in famiglia ad Abidjan dove continua a giocare incessantemente a pallone, tanto da accantonare il suo sogno di diventare medico, insolito per un futuro calciatore. A seguito della crisi economica che colpisce la Costa d’Avorio torna dallo zio a Dunkerque, ma adolescente si fa rimandare di un anno a scuola. I genitori non la prendono benissimo e l’intervento è immediato: bandito per un anno dai campi di calcio, prima metti la testa a posto e sui libri, poi torni alla tua passione; messaggio recepito alla svelta e possibilità di tuffarsi a tempo pieno nel calcio, da cui arriverà l’apoteosi del primo contratto strappato al LeMans. In Francia Drogba conosce la gavetta e non fa una piega, il suo sogno se lo suda fino in fondo e con la costanza inizia a scalare i gradini, prima in seconda divisione e poi in League 1 a Guingamp, aggiungendo anno dopo anno un pezzetto al suo gioco, quello che oggi, a 30 anni passati già da un pezzo, non ha ancora smesso di fare, perché anche nel pieno della carriera un giocatore può rifinire le sue abilità, lavorare metodicamente per affinare un gesto, un particolare. Forse arrivato in Premier League tirava con tanta pericolosità le punizioni? La realtà è che Drogba ha sempre lavorato sulla sua tecnica, passata sempre in secondo piano a causa della sua debordante potenza fisica, quella che gli consentiva di segnare anche con un avversario letteralmente aggrappato addosso, e della sua prestanza atletica. In effetti se chiedi quali sono le principali caratteristiche dell’ivoriano, le risposte più immediate saranno forza, velocità e gioco di gambe, ma Drogba è anche molto altro. Un centravanti completo, capace di segnare con ogni parte del corpo da qualsiasi posizione, seguace di quello che fu il precursore degli attaccanti totali del continente nero, il liberiano George Weah, tanto che di lui si è sempre detto facesse reparto da solo. Vederlo all’opera con le maglie del Marsiglia e poi del Chelsea era uno spettacolo: a velocità di base e potenza coniugava la rapidità di controllo e rilascio nello stretto, tiro mortifero da fuori area, anche da grandi distanze da cui caricava pure da fermo, buona tecnica di testa e di sinistro, oltre al prediletto destro, fiuto per il gol, senso dell’anticipo, l’innata capacità di duellare nell’uno contro uno e nel prendersi falli. Come se non bastasse, ha rivelato doti pregevoli anche nella rifinitura, perché ha mostrato intelligenza nella lettura delle situazioni. C’è da aggiungere altro? Probabilmente no, ed infatti per anni è stato considerato il simbolo del Chelsea vincente, padrone d’Inghilterra prima sotto la guida di Mourinho e poi con Ancelotti. Ancora gli manca di mettere le mani sulla Champions League, a cui è andato vicino in svariate occasioni, perdendo anche una finale ai rigori con lo United, a cui non prese parte perché espulso nei supplementari per una manata a Vidic. Alloro internazionale che gli è sempre scivolato dalle mani sul più bello, anche a Marsiglia dove segnando goal a grappoli condusse la squadra sino alla finale di UEFA (sua la rete che eliminò l’Inter), persa però 2-0 col Valencia. Fu capocannoniere della manifestazione, magra consolazione. Sebbene si trovasse a meraviglia sul Mediterraneo e la prima, fantastica stagione sembrava il trampolino di lancio verso una brillante carriera nelle file dell’Olimpique, squadra in cui sperava di diventare una bandiera, l’offerta di 24 milioni di sterline, una cifra astronomica, lo strappò alla League 1 consegnandolo ad Abramovich che da poco aveva preso le redini del Chelsea affidandolo all’ambizioso allenatore. Con la maglia arancione della nazionale tante soddisfazioni ma anche qui nessun titolo a testimoniarlo. Ha avuto il merito di far assurgere la Costa d’Avorio tra le squadre protagoniste del continente nero, senza però mai riuscire a conquistare la coppa continentale, sfuggita nel 2006 in finale con l’Egitto. Beffa vuole ancora ai rigori ovviamente, e lui sbagliò pure il primo. Sempre guidati dal suo talento e carisma gli Elefanti, questo il soprannome di facile deduzione degli ivoriani, hanno infilato due partecipazioni consecutive alla fase finale della Coppa del Mondo, esordio assoluto, nelle edizioni del 2006 e 2010. In entrambe le occasioni è sopraggiunta l’eliminazione al primo turno, forse un po’ precoce vista la qualità della squadra, ma gli africani han sempre avuto poca fortuna nel sorteggio, che ha sempre assegnato avversari di livello (Argentina, Serbia e Olanda nel 2006, Brasile, Portogallo e Corea del Nord l’anno passato). A Didier, capochioccia di una generazione di buonissimi giocatori, quelli che a turno una nazione africana riesce sempre a produrre ma raramente a confermare, è spettato l’onore del primo goal nella competizione. A Londra ha trascorso tante splendide stagioni, anche se caratterizzate da alti e bassi dettati più dalle bizze caratteriali che da flessioni tecniche sul campo. Un uomo non banale, dalle mille sfaccettature, umorale ed istintivo, capace di grandi gesti di generosità (come la costruzione di un ospedale nella capitale ivoriana) ed esplosioni colleriche talvolta inspiegabili come quando in coppa dopo aver segnato contro il Burnley andò sotto la curva dei tifosi avversari ringraziandoli per gli insulti con un bel dito medio, a cui aggiunse la restituzione al mittente delle monetine che gli venivano scagliate contro. O la famosa aggressione verbale nei confronti dell’arbitro norvegese Orebro nell’ancor più celebre semifinale di Champions League, quella persa col Barcellona per un goal all’ultimo di Iniesta ed un arbitraggio quantomeno criticabile. In quell’occasione Didier perse davvero la testa, apparendo spiritato e molto vicino a passare alle vie di fatto se solo non si fosse trovato sul rettangolo verde. L’ultima annata lo ha visto meno protagonista, essendosi trascinato per molti mesi una forma di malaria che lo ha debilitato non poco: ha giocato ma chiaramente non al 100%. A gennaio poi l’arrivo di Torres, l’inizio della staffetta, lo spagnolo che non si sblocca e Ancelotti che insiste nel tenerlo in campo convinto che possa riprendersi solo giocando. Col senno di poi, facile dirlo, scelta sbagliata che ha penalizzato la squadra e Drogba, apparso molto più determinante e concreto quando faceva ingresso sul campo. Chissà, anche la sfida ai quarti col solito Manchester United avrebbe potuto avere esito diverso se l’ivoriano, autore dell’unico goal del Chelsea, quello del momentaneo pareggio riaccendi speranze, avesse giocato l’intera partita. Dopo i ripetuti successi in tutte le competizioni inglesi, non smetterà cerco l’assalto al trono europeo.

 
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Pubblicato da su 25 giugno 2011 in Personaggi

 

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Profili 9.Hideki Matsui

Domanda trabocchetto: qual è lo sport popolare negli Stati Uniti? Il basket ? No, quello è nato nelle città della sponda atlantica e in alcuni sparuti stati. Football? Nemmeno, la palla pizzuta è diffusissimo nel sud degli States ma è lo sport per il divano della domenica e si gioca per una ristretta porzione dell’anno, quella autunnale con prolungamento invernale. Poi per giocarlo serve anche il fisico. Scartato anche l’hockey per ovvie ragioni climatiche, ne resta solo uno: il baseball. Perché? Lo possono giocare tutti quanti, di qualsiasi età, corporatura, altezza e colore siano, bastano una palla, una mazza ed un prato per praticarlo. Il passatempo nazionale e non si scappa. Se però noi europei possiamo erroneamente pensare che sia un gioco tutto stelle e strisce, commetteremmo un grande errore: nel mondo è diffusissimo anche in tutta la fascia del caribe, da Cuba alla Repubblica Dominicana, e nell’estremo oriente, Giappone ma anche Corea e Taiwan. Certo, nella terra del Sol levante pare sia stato introdotto proprio da espatriati americani durante il periodo Meiji (parliamo dunque di seconda metà del XIX secolo), ma i nipponici se ne sono invaghiti adottando alcune regole tutte loro ed innalzando la qualità del gioco a livelli molto alti, tanto che oggi è senza dubbio uno degli sport più seguiti e praticati anche sull’isola. Di questo stile è alfiere al di là del Pacifico, nella Major League, Hideki Matsui, l’uomo ribattezzato Godzilla, probabilmente il mostro cinematografico più famoso sgorgato dalle immaginifiche menti asiatiche. Il nomignolo non è scelto a caso, dato che il nostro sfiorando il metro e novanta è uomo piuttosto piazzato considerando i canoni giapponesi. Inoltre quando colpisce con la mazza sprigiona pura potenza e come al gigantesco mostro piaceva demolire gli edifici, Matsui si diverte da matti a demolire le palle veloci dei lanciatori e magari pure il loro morale (detto questo però, il soprannome affibbiatogli durante le superiori pare avesse molta attinenza anche con l’acne che gli era esploso in volto, sciagura mai troppo sottovalutata dell’adolescenza). Ormai le frontiere sono cadute e di giocatori nipponici che militano negli Stati Uniti è pieno, ma Hideki assieme ad Ichiro ne è probabilmente il portabandiera, anche perché ha militato per sette anni in una delle squadre più famose dell’intero globo, i New York Yankees, l’impersonificazione del baseball agli occhi di tutti i non appassionati o avvezzi. La storia del titano giapponese però inizia molto prima, nella prefettura di Ishikawa che si affaccia sul Mar del Giappone, la costa che non viene direttamente colpita dalla vastità del Pacifico per intenderci. Inizia a giocare piccolissimo col padre, e sin da quando era ragazzino era talmente bravo e colpiva già talmente forte che in pratica gli fu imposto di battere di mancino per evitare che l’impatto con la palla fosse troppo potente e l’imbarazzo dei fratelli maggiori troppo grande nel vedersi surclassare dall’ultimo arrivato. L’aneddoto rivela come Matsui sia un destro naturale nel quotidiano, lo era anche quando si cimentava al lancio, con una sola eccezione, quella che segna la differenza: in un mondo di destri essere mancini, soprattutto nello sport, regala piccoli vantaggi. Matsui è sempre sembrato focalizzato sul baseball, diversamente da molti ragazzini che scoprendosi bravi negli sport ne praticano più di uno: inizia a farsi notare già durante la high school, dove sebbene le dimensioni della palla e del campo siano minori rispetto a quelle americane faceva strage di home run. Di fatto era già uno slugger, uno che colpisce tremendamente forte ed infatti fece alzare qualche sopracciglio a livello professionistico: lui era un ammiratore degli Hanshin Tigers, ma furono i Yomiuri Giants ad interessarsi a lui per primi e con convinzione. Anche se il ragazzo aveva sognato di vestire la casacca dei primi, come sottrarsi alla chiamata della squadra simbolo dell’intera nazione, la più vincente ed amata? Infatti, non si poteva ed il giovane Hideki prese la strada di Tokyo. Nonostante le aspettative sue ed altrui non carburò subito, dovette attendere tre stagioni ed intanto sudare, lavorare, apprendere. Nel mentre, il primo titolo. Poi la deflagrazione nel 1996, il titolo di MVP anche se la squadra non riuscì a conquistare i titolo, battuta dagli Orix Blue Wave di Ichiro Suzuki. Da quell’anno in poi però, la costante ascesa del giocatore, che caso raro rifiutò un contratto pluriennale dai Giants perché il suo obiettivo era di migliorare stagione dopo stagione ed essere conseguentemente pagato per il suo effettivo valore. Fu proprio il suo rivale una delle molle al costante miglioramento: negli anni a seguire Matsui conquistò ancora due titoli, 2000 e 2002, ma quando Ichiro oltrepassò l’oceano per giocare con i Seattle Mariners, anche lui si convinse che sarebbe stata quella la strada. Delle tante opzioni scelse gli Yankees: per i giapponesi fu un grande orgoglio ma anche una grande perdita. Matsui però non perse tempo per farsi onore: nella partita d’esordio allo Yankee Stadium fu il primo giocatore ad effettuare un grande slam (fuori campo con basi piene, ergo 4 punti) alla partita di debutto. Inutile sottolinearlo, entrò subito nel cuore dei nuovi tifosi. La sua prima stagione fu fantastica, coronata dal premio come rookie dell’anno e anche dalle finali, perse però contro i Florida Marlins. Dopo il primo anno il giapponese entrò a far parte a tutti gli effetti dello squadrone della Grande Mela a fianco di Jeter, Rivera, Alex Rodriguez, ma le stagioni erano avare di soddisfazioni per gli Yankees che nonostante i 26 titoli subirono la memorabile rimonta dei Red Socks nel 2004 e non riuscivano più a raggiungere le World Series sebbene partissero tra le favorite ogni anno. Fino al 2009, il ritorno in finale contro Philadelphia e Hideki che viene nominato MVP (primo giapponese a riuscirvi) con delle prove mostruose, ultima quella della decisiva gara 6 dove contrbuì alla causa procurando 6 dei 7 punti che valsero vittoria e titolo a New York. Il cerchio si era chiuso. Dopo la grande cavalcata del 2009 Matsui e gli Yankees hanno preso strade diverse avendo differenti prospettive economiche, ed il figlio del Sol Levante ha deciso di avvicinarsi a casa cambiando costa ed optando per una stagione ai Los Angeles Angels di Anaheim, la squadra che fondamentalmente gli ha offerto il contratto migliore. Dopo quella stagione un nuovo cambio di maglia e l’accasamento agli Oakland Athletics, sempre di California stiamo parlando. A modo suo Matsui è un personaggio, poco loquace probabilmente ma molto ammirato e rispettato nello spogliatoio per la sua etica lavorativa, il suo approccio al gioco e la sua terribile efficacia nel colpire le palle decisive nei momenti chiave. Non è stato un caso che in occasione del suo ritorno a New York dopo il cambio di squadra avvenuto al termine di sette stagioni sia stato festeggiato di cuore dagli ex compagni e dal pubblico. Sarà forse anche per il suo modo di fare, il continuare ad avvalersi dell’interprete nonostante quasi un decennio in territorio statunitense qualcosa dal punto di vista linguistico dovrebbe avergli lasciato. Eppure il talento lo ha portato ad essere uno dei venti sportivi non americani più pagati, grazie anche a tutti i contratti pubblicitari ovviamente ed al grandissimo successo che riscuote in patria, dove a seguito della vittoria nelle World Series anche il primo ministro Yukio Hatoyama si mobilitò per recapitargli un messaggio di congratulazioni che fa tanto stile nipponico. Oggi a 37 anni quasi compiuti, questione di pochi giorni, è palese come la parabola della sua carriera stia volgendo verso il basso, magari non in termini qualitativi ma comunque di longevità. Per questo chi è amante di questo sport farebbe bene a gustarsi le prodezze del Godzilla giapponese finché sarà ancora un pericolo per i lanciatori.

 
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Pubblicato da su 8 giugno 2011 in Personaggi

 

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Profili 8.I fratelli Schleck

La ruota gira veloce, la bicicletta corre e corre inghiottendo l’asfalto e proiettandosi oltre, in posti dai nomi germanici, contratti, che sembrano cartoline fiabesche, colme di vallate, castelli abbarbicati sulla collina, borghi medioevali: Assel, Diekirch, Vianden. In realtà siamo davvero in una fiaba, o quasi. Questi sono i luoghi in cui sono cresciuti Frank e Andy Schleck, due pezzi da novanta del ciclismo moderno che affondano le loro radici nel passato e nella storia della regione. Granducato del Lussemburgo, nome altisonante di uno staterello incuneato tra due ingombranti potenze, Francia e Germania, ma che ha sempre lottato per mantenere la propria autonomia. Il Granducato faceva parte delle Fiandre, una zona che con pedali, manubrio e sellino vanta un rapporto privilegiato, passionale. In questi posti il calcio sarà anche lo sport più praticato come un po’ ovunque in Europa, ma non si comincia nemmeno a discutere su quale sia quello più amato, seguito, vissuto con un attaccamento viscerale. Belgio, Olanda, Lussemburgo, non importa dove, inforcare la bicicletta per questa gente va oltre il semplice passatempo, fa parte della cultura popolare, la stessa che nel secolo scorso ha sfornato campionissimi ad ogni generazione, Merckx il più celebre ma anche tanti altri: Van Looy, Zoetemelk, Museeuw, Boonen.. Tra questi anche Charly Gaul, indimenticabile scalatore che contribuì a scrivere capitoli leggendari nella storia del ciclismo degli anni ’50, trionfando sia al Tour che al Giro. Fu il primo lussemburghese a guadagnarsi la notorietà in ambito ciclistico, se si esclude Nicolas Frantz che appartiene alla preistoria degli anni ‘20; non sarebbe risultato l’ultimo. Durante il periodo del cannibale pedalava anche Johny Schleck, onesto gregario che partecipò svariate volte a Tour e Vuelta. Una carriera a sacrificarsi per i compagni, a portare borracce ai capitani. Con un genitore del genere, normale che in famiglia i pargoli scegliessero di mettersi in sella cercando di emulare l’esempio paterno. Lo fece Frank, non poté esimersi nemmeno Andy pochi anni dopo, ulteriormente spronato dal fratello maggiore. Ai figli però non sarebbe toccata la stessa sorte sportiva del padre. I due hanno cinque anni di differenza, ma si assomigliano tantissimo: stessa altezza, stesso peso, anche la fisionomia è molto simile. Solo il talento non si è distribuito in maniera equanime, ma seguendo una caratteristica probabilmente di famiglia tende ad innalzarsi attraverso il tempo, dunque Andy ne è stato il beneficiario maggiore. Frank ha iniziato la carriera come corridore di classiche, corse in linea, dove gli avversari sono tanti come le incognite e le occasioni da sfruttare inversamente proporzionali. È di questo periodo il successo in una delle corse del nord, l’Amstel Gold Race datata 2006. Con il sopraggiungere della maturità ha modificato gradualmente i suoi obiettivi, concentrandosi maggiormente sulle grandi corse a tappe. Quelle che sono immediatamente entrate nel mirino di Andy, capace a soli ventuno anni di partecipare al suo primo Giro d’Italia e classificarsi secondo suscitando un discreto fermento, data la prova di un talento cristallino che necessitava solo di essere allenato e modellato. Ogni volta che ha portato a termine uno dei grandi giri non è mai rimasto a bocca asciutta, ha sempre conquistato la maglia bianca, quella di proprietà del leader dalla classifica riservata ai giovani, gli atleti sotto i venticinque anni. Lì non ha mai avuto rivali, ma ancora non ha inserito il suo nome nell’albo di queste manifestazioni alla voce vincitore assoluto, preceduto troppo spesso ormai dall’asso pigliatutto di questi anni, quell’Alberto Contador che sta spadroneggiando al Giro e proverà a bissare in terra francese, lo stesso spagnolo che lo ha rimpiazzato come uomo di punta al team Saxo Bank. Quest’anno Andy non gareggerà più tra i giovani, ha irrobustito la struttura fisica per migliorare a cronometro e non c’è dubbio che per lui si tratterà di un primo esame di maturità, supportato dai compagni di sempre. I due fratelli infatti hanno sempre corso assieme nel team CSC, l’attuale Saxo Bank appunto, sotto la guida di Bjarne Riis, lo stesso che aveva posto termine al regno in giallo del navarro dagli occhi tristi, Re Miguel. Quello che proverà a fare Andy con Alberto. Al termine della passata stagione però la separazione dal danese e la volontà di costruire una squadra tutta loro, di marca lussemburghese. Impresa che non si presenta impossibile vista la popolarità dei due in patria e una qual certa disponibilità finanziaria presente nel Granducato data dal prolifico numero di banche. Detto fatto a gennaio è nato il team Leopard con a capo gli Schleck e tra le sua fila tanti compagni della vecchia formazione, tra tutti il treno umano, lo svizzero Cancellara, il venerandissimo O’Grady ed il velocista nostrano Bennati. Un segno della capacità di far gruppo e della stima che riscuote il duo lussemburghese fra i colleghi. Mentre il Giro imperversava ed il team Leopard si ritirava in blocco dopo poche tappe per la morte del belga Weylandt li abbiamo visti in California, probabilmente in preparazione al tanto agognato Tour parteciperanno al Giro del Delfinato o a quello della Svizzera, dove l’anno passato Frank finì al primo posto della classifica generale. Ad inizio stagione li abbiamo ammirati nelle classiche del nord, le loro terre, cercando prima di aiutare Cancellara e poi protagonisti di una fuga ridottasi a tre uomini nella Liegi Bastogne Liegi, dove Andy aveva saputo imporsi nel 2009. Con assolo solitario, ovviamente. I due han battagliato provando a staccare l’indesiderato compagno di avventura, il belga Gilbert, ma nulla da fare. Il vallone non ha mollato mezza ruota ed in volata ha dimostrato nettamente la sua superiorità che ad oggi ne fa forse il più forte per le gare di un giorno. Per gli Schleck solo piazze d’onore. Quella gara ha dimostrato un cronico difetto di entrambi, ovvero la totale assenza di esplosività nello scatto. Improponibile per loro vincere una volata se si trovano in un gruppetto, l’unica opzione possibile è l’arrivo solitario o la cavalleria dell’avversario, come capitò sul Tourmalet tra Andy e Contador dopo che avevano fatto il vuoto al Tour del 2010. Questo è un po’ il loro limite: buoni passisti, Frank più di Andy fino ad ora, ottimi in salita ma sprovvisti di una sparata al fulmicotone che faccia la differenza, di cambi di ritmo spezza fiato e resistenze. Certo spadroneggiano nei campionati nazionali, specie ora dopo che un drammatico collasso causato da problemi respiratori ha indotto il connazionale Kim Kirchen al ritiro dall’attività agonistica a soli 32 anni, ma fan fatica a dar la zampata in una grande competizione pur piazzandosi sempre nelle primissime posizioni. Entrambi hanno ancora diversi anni di carriera davanti, il che significa tante cartucce da poter sparare, perché se è vero che Andy è solo all’inizio Frank ha 31 anni, età che per un ciclista è ancora verde e rappresenta forse la metà della carriera. L’anno passato è stato infausto per Frank, che era in grande forma prima del Tour ma si è dovuto arrendere ad una caduta nel corso delle prime tappe, clavicola fratturata come vuole tradizione ciclistica ed arrivederci alla Vuelta dove ottenne l’ennesimo piazzamento. Dovrebbe avere insegnato molto ad Andy, dall’aver perso il Tour per una manciata di secondi, precisamente “39 che sostanzialmente equivalgono a quelli lasciati per strada causa un salto di catena in un momento cruciale della gara, all’esser stato espulso dalla squadra alla Vuelta per violazione del regolamento, leggi esser tornato tardi in albergo e con un drink di troppo nel serbatoio. Vedremo cosa avrà imparato e come lo avrà metabolizzato. Di essere continuamente secondo si sarà anche stancato, chissà che questa non sia la stagione dell’esplosione per il fratellino del tandem dal Lussemburgo.

 
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Pubblicato da su 25 Maggio 2011 in Personaggi

 

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Profili 7.Giba

Brasile, terra magica ed esotica, ricca di fascino e contraddizioni, ben simboleggiate da Rio, il suo irresistibile carnevale, le spiagge immacolate, il calcio che è molto più di una religione, per i ragazzi delle favelas si tratta dell’unica chiave possibile da infilare nella toppa che apre la porta del successo e permette di abbandonare la miseria imperante ai piedi del Cristo in pietra il cui sguardo abbraccia tutta la baia. Ma Rio de Janeiro è solo un esempio, situazioni del genere si presentano in ogni città, e per tanti che finiscono col bruciarsi deviati dai vizi della strada ce ne sono pochi che emergono; il bacino carioca è un pozzo senza fondo, ogni anno nuovi talenti spuntano come funghi e le ricche squadre europee devono solamente smuovere per tempo e con sapienza le socche giuste, per arrivare prima degli altri cacciatori sulla preda ambita evitando lo scatenarsi di sanguinose aste. Una terra che ha dato i natali a O’Rey, Garrincha, Falcao, Ronaldo non può che arrogarsi il diritto di essere considerata la culla del soccer. Dare calci al pallone però non è l’unico gioco praticato nello stato della foresta amazzonica e del Mato grosso, soprattutto non è l’unico in cui i compatrioti di Drummond de Andrade (poeta che nei suoi scritti ha toccato anche temi sportivi) riescono con risultati apprezzabili. C’è infatti un’altra selezione che nell’ultimo decennio si è rivelata più che cannibalistica, spietatamente vorace, smaniosa di arraffare sempre il trofeo più prestigioso messo in palio, qualunque esso fosse. Trattasi forse di affinità elettive, ma quel che si è creato tra la nazione verdeoro ed il volley è ufficialmente un rapporto privilegiato, alimentato con continuità impressionante dalle vittorie che si susseguono a raffica. Per molti di quegli anni capitano e faro luminoso di quella nazionale di stelle era Gilberto Amaury de Godoy Filho, probabilmente molto più riconoscibile se nominato col suo soprannome, Giba, musicale e immediato come una schiacciata. Giba che inizia in sordina ma pian piano diventa il migliore, meritandosi i premi come MVP alle olimpiadi del 2004 e nei successivi mondiali giapponesi del 2006, vinti non a caso dai suoi. Giba che diventa il migliore per svariate ragioni, ben personificando la parabola ascendente del Brasile, nazione da lungo tempo sulla mappa della pallavolo mondiale, addirittura sorprendente vincitrice dell’oro olimpico a Barcellona ’92, ma mai una vera potenza in grado di dare continuità alle sue imprese. Quella semmai era l’Italia, la squadra dei fenomeni, quelli che non perdevano mai anche se avevano un rapporto tumultuoso con i giochi olimpici , quelli che tutti ammiravano. Anche i brasiliani. Che infatti decisero di intraprendere l’operazione più saggia quando si vuole crescere di livello: misurarsi coi migliori. Molti di loro attraversarono l’Atlantico, approdando a diversi club del nostro campionato. Da noi hanno giocato ed imparato, sono migliorati carpendo tutti i segreti del giochino ed un giorno hanno scalzato i padroni, prendendosi il posto che consente di guardare tutti dall’alto: all’Olimpiade ateniese nove dei dodici componenti della squadra militavano nella penisola. Casualità o pesante indizio? Da lì in poi non si sono più voltati, sfilando agli azzurri lo scettro di formazione dominante. Mentre i nostri declinavano, loro risplendevano sempre più. Vero che nella pallavolo a livello di nazionali esistono numerose competizioni oltre ai tornei base, olimpiadi e mondiali, ma i carioca han saputo dissipare ogni critica preventiva imponendosi in tutto: Giochi Panamericani, Coppa America, Grand Championship, World League di cui han fatto filotto dal 2003 al 2010 fatta eccezione per l’annata del 2008. Di quegli esuli decisi ad approdare in campionati più competitivi, e inciso di non poco conto maggiormente remunerativi, faceva parte anche Giba, giunto nel 2000 a Ferrara e trasferitosi tre anni dopo a Cuneo nel tentativo di renderla grande, lei che aveva sempre partecipato al banchetto delle grandi squadre senza però mai riuscire ad uscirne con qualche alloro. Anche con l’asso brasiliano niente scudetto, per quello i piemontesi dovranno aspettare fino alla stagione scorsa, in compenso alzeranno al cielo un’agognata Coppa Italia, che nella pallavolo rappresenta ancora qualcosa. Dopo l’esperienza italiana, cruciale nell’influenza esercitata sul suo gioco, valigie nuovamente pronte e parentesi russa, nel campionato dei magnati che non lesinano denaro per svagarsi con lo sport, poi la saudade che miete l’ennesima vittima ed il ritorno in patria, al Pinheiros, verosimilmente anche per chiudere una carriera meravigliosa. Una carriera che l’ha portato a diventare il migliore in una squadra di giganti, composta da nomi tratti da una fiaba, nomi tipicamente brasiliani: Andrè, Dante, Ricardo, Gustavo, Kid, Serginho. Lui a primeggiare su tutti quanti, con l’inseparabile numero sette a distinguerlo. Niente male per uno che da adolescente pensava sì di avere un futuro nel volley, ma non quello classico, bensì la versione da spiaggia. Come dargli torto, la sua terra avrà anche esercitato un minimo richiamo: sole, mare, ragazze, un mestiere da portare avanti in costume e occhiali da sole. Libertà estrema. Gli allenatori che lo hanno avuto in Brasile però sono riusciti a catechizzarlo diversamente, e la pallavolo ne ha guadagnato un grandissimo. Giba è stato il migliore perché completo in tutti gli aspetti del gioco, sa fare tutto con competenza e ad altissimi livelli. Conosciuto come schiacciatore implacabile, vero, ma l’Italia ancora si ricorda alcuni salvataggi al limite del miracoloso durante la finale olimpica, quella che giocò con i baffi a manubrio e ricorda come la miglior partita mai disputata in carriera. Pensiero condivisibile ed occasione azzeccata in linea di massima. Abbinare grandi doti atletiche ad eccellenti qualità tecniche, questa è la semplice formula, semplice solo sulla carta s’intende, per sfondare negli sport di squadra moderni. E sì che l’uomo di Londrina, cittadina nel sud del Brasile, che sorge all’interno dello stato del Paranà, talvolta è pure stato considerato sottodimensionato per il volley moderno, essendo solo un sopracciglio sopra l’1.90. Quisquilie quando hai un braccio del genere e quella velocità di esecuzione. Ma a monte di tutto questo la questione della statura non si pone nemmeno sapendo della sua infanzia, che ne ha forgiato un uomo di straordinaria forza mentale. Lui non ama parlarne perché è una persona elegante e quelle sono cose appartenenti al passato, un passato che nemmeno si ricorda se bisogna citare la leucemia, quella contratta quando ancora era in fasce ma vinto col piglio del leone. Un braccialetto giallo, quello di Lance Armstrong, un altro che qualcuna ne ha passata, e si prosegue. Certo, ricorda la volta che cadde da un albero e si squartò il braccio a metà, 150 punti interni ed esterni per suturarlo e l’indomabile coraggio di Donna Solange, unica figura di riferimento nella vita del piccolo, per tenerlo sveglio fino al raggiungimento dell’ospedale. Ricorda la vita dura spesa tra il bus, la scuola ed il forno che gestiva la madre, inutile dirlo il vero uomo di casa. Con esperienze del genere alle spalle, che paura può fare un campo di gioco e una rete da mangiarsi con un balzo? Nessuna, ed infatti nel mondo del volley Giba ci entra presto. Di squadre in Brasile ed in carriera ne cambia una miriade: non è certo quello che può definirsi una bandiera, perché l’unica alla quale sente davvero di appartenere è quella verdeoro che indossa in giovane età e dalla quale non vorrebbe separarsi nemmeno adesso, dopo la dolce indigestione di titoli conquistati assieme, ultimo della lunga lista il mondiale italiano dello scorso anno, anche se in quella selezione ormai Bernardinho gli aveva ritagliato un ruolo marginale. Proprio in quell’occasione dimostrò la sua sportività, dichiarando come la sconfitta cercata dal Brasile con la Bulgaria per ottenere migliori accoppiamenti nel proseguimento del torneo rappresentasse una macchia nella sua carriera.

 
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Pubblicato da su 16 Maggio 2011 in Personaggi

 

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Profili 6.Goran Ivanisevic

Lo sport è così seguito perché ogni tanto sa ancora regalare piccole magie, emozioni viscerali, attimi che resteranno impressi nel collage dei momenti felici trascorsi sul pianetucolo. Anche in un mondo in cui il romanticismo si sta diradando come i rinoceronti bianchi sa riservare un angolino caldo, un cantuccio ad una bella favola. Wimbledon, 9 luglio 2001. Goran Ivanisevic corona il sogno di una vita, raggiunge il traguardo inseguito ed agognato lungo tutta la carriera, che gli era sempre scivolato dalle mani e sembrava ormai dissolversi all’orizzonte, irraggiungibile. Il destino però ha deciso di schierarsi diversamente premiando la tenacia di questo figlio dell’ex Jugoslavia. Raramente il nome di un tennista è associato in maniera così prepotente ad un singolo torneo, e dello stesso ad una specifica edizione, ma se lo vinci con quello stile sfacciatamente fiabesco è arduo non farlo. E sì che il croato in carriera di tornei ne ha vinti altri 21, disputando ancora più finali e dunque perdendone addirittura più del 50%, ben 27, ha partecipato all’edizione numero XXV dei Giochi Olimpici, quella di Barcellona ’92, terminandola con due medaglie di bronzo ciondolanti al collo frutto del singolare e del doppio, è arrivato ad essere numero 2 del ranking dietro solamente a Pete Sampras, la sua bestia nera, il dominatore dell’erba londinese contro cui si infrangevano regolarmente le ambizioni del nativo di Spalato. Eppure tutti lo ricorderanno per la vittoria ottenuta a Wimbledon, edizione 2001. Ma andiamo con ordine. Il rapporto tra Goran ed il più prestigioso tra gli Slam, l’unico giocato su erba, quello impregnato di storia e tradizioni condite dalla panna acida, sboccia diversi anni prima. Il feeling inizia già nel 1990, quando affacciatosi da pochi anni nel circuito professionista riesce a raggiungere la semifinale, dove verrà eliminato da Boris Becker che a sua volta perderà in finale da Stefan Edberg, lo svedese dotato di grande tecnica. Quelli sono gli anni dell’alternanza tra Svezia e Germania, ma durano meno di un lustro perché incombe il dominio degli americani, che piazzeranno almeno un finalista per i successivi nove anni: il caso vuole che il primo sia proprio nel 1992, l’anno in cui Ivanisevic batte Edberg e si trova di fronte Andre Agassi: entrambi sono giovani ed affamati di successi, ma a spuntarla in cinque set è lo statunitense. Primo tentativo fallito ma ha fatto la bocca all’erba inglese, capendo che è un torneo adatto alle sue caratteristiche. Dopo un anno travagliato infatti si ripresenta in finale nel ‘94, e stavolta sulla sua strada c’è Pete Sampras, ancora lui, il detentore del trofeo: due set persi al tie-break, poi lo schianto nel terzo lasciato senza conquistare neppure un game. Rivincita l’anno successivo in semifinale, ma ancora una volta dopo un’avvincente battaglia è lo yankee a prevalere in cinque set. Comincia a diventare fastidioso. Lo è ancora di più se dopo due anni non brillantissimi ti capita di raggiungere nuovamente la finale approfittando anche di un tabellone non impossibile, odori l’impresa ma te lo trovi ancora di fronte: ancora cinque set, ancora grande battaglia, tanti applausi ricevuti ma ancora piatto d’argento, premio per il perdente della finale o detto in maniera agrodolce il secondo classificato. Bello sentirsi amato dalla gente, ma anche trovarsi a rivestire il ruolo di quello un po’ antipatico perché vince sempre non sarebbe dispiaciuto al nostro. Per Goran il rapporto con Wimbledon è diventato ormai un’ossessione, ha costeggiato la possibilità di vincerlo così tante volte ma non è ancora riuscito a iscriversi nell’albo dei vincitori, e gli acciacchi cominciano a farsi sentire, soprattutto quello alla spalla sinistra che a furia di servire bolidi mancini ha tendini quasi compromessi: lui rifiuta di operarsi e conseguentemente sprofonda in classifica, non riuscendo più a produrre un tennis soddisfacente e vagamente competitivo, considerando che la sua grande arma, l’unica ascoltando i maligni, è sempre stata il servizio. In effetti ha capeggiato la classifica degli ace nel circuito per svariati anni, realizzandone una valanga cui seguiva una risposta convincente ed un gioco a rete che seppure lontano parente di quello posseduto dai maestri degli anni ottanta ben figurava di fronte ai prodotti del tennis moderno, che la rete preferiscono ammirarla saldamente ancorati a fondo campo e sembrano automi costruiti in serie, non certo brillanti per spirito d’iniziativa. Lui invece praticava un gioco che a volte risultava monocorde, fondandosi sulla solidità in battuta, ma sapeva anche regalare sprazzi di fantasia, di attacco, di rischio, come infatti possono testimoniare le innumerevoli volte in cui riusciva a buttare nel water occasioni propizie per banali errori come doppi falli o volée a rete. Ma questo faceva parte del suo carattere, quello che lo rendeva tanto popolare alle folle, non rispecchiando il prototipo del tennista educato, compassato ed in fondo un po’ damerino. Goran era l’esatto opposto: spiritoso, irritabile, chiacchierone, sempre pronto a spazientirsi con gli arbitri ed i giudici di linea, insultati spesso in croato, bonariamente sbertucciati come la volta che si recò alla sedia dell’arbitro per pulirgli gli occhiali o presi a male parole con conseguente perdita di concentrazione ed interi game regalati agli avversari tra racchette rotte e risposte gettate in rete o in tribuna. Fino ad arrivare al 2001. È il 125° in classifica, il che significa che allo Slam ci dovrebbe entrare dalla porta di servizio, attraverso le insidiose qualificazioni, senonché riceve la prima spinta dagli organizzatori, che gli assegnano una wild card memori dei precedenti. La settimana prima sull’erba del Queen’s era caduto al primo turno, dunque cosa aspettarsi se non un saluto veloce. Invece, superato il qualificato Jonsson al primo turno, inizia ad inanellare una serie di successi contro teste di serie, mentre nel resto del tabellone come al domino cadono uno ad uno tutti i favoriti: fuori Hewitt, Agassi, fuori soprattutto Sampras per mano dell’astro nascente Federer, che a sua volta soccombe con l’inglese Henman nei quarti. Henman che diventa l’avversario di Ivanisevic per un posto in finale, dopo aver superato Moya, Roddick (a cui cederà volentieri le nomea di primo tra i perdenti), Rusedski, Safin. Tim è la grande speranza per gli inglesi che vorrebbero finalmente un connazionale profeta in patria: il match è equilibrato, nessuno cede il servizio, un set pari ma Goran dà segni di cedimento nel terzo, perso 6-0. La spalla fa male, è infiammata, ma gli dei provvedono ancora mandando la pioggia. La partita diventa infinita, le numerose interruzioni lo prolungheranno per tre giorni facendo slittare la finale a lunedì, Goran ha il tempo per rifiatare ed in cinque set supera anche Henman. La finale è contro Rafter, anche lui a fine carriera e con un Wimbledon mancante in bacheca: lo stadio è una bolgia, il tifo è calcistico e ben ripartito, la partita combattutissima, come tutte le finali del croato: si va avanti a strappi, un set a testa, per un attimo la testa Goran sembra anche perderla, ma rinsavisce per il quinto set, che diventerà il più lungo nella storia di una finale fino a che Federer e Roddick non strapperanno il primato nel 2009. Sull’8-7 serve per il titolo, ha tre match point ma li spreca divorato dalla stanchezza e la tensione. Stavolta però nessuna tragedia sportiva, c’è il lieto fine. L’ultimo punto, la risposta di Rafter che si infrange sulla rete, la liberazione di tutte le emozioni, le frustrazioni, le paure represse, la corsa in tribuna ad abbracciare il suo clan e soprattutto il padre, che con lui aveva condiviso tutte le sofferenze in quegli anni, uno stadio intero che gli sancisce il meritato tributo, un’ovazione ed una gioia spontanea anche da parte dei numerosi fan dell’australiano, il primo a complimentarsi. Finalmente nella storia dalla parte sperata, quella vincente, finalmente la possibilità di dedicare il successo ad un amico scomparso da troppo tempo, quel Drazen Petrovic che della Croazia era stato simbolo e ora gli passa il testimone, almeno per un giorno, quando al rientro nella sua Spalato viene accolto da un oceano festante. Dopo quella storica giornata Goran combinerà poco, acciaccato, appagato, anche se riuscirà a raggiungere le 600 vittorie in carriera e pur non giocando farà parte della formazione che vincerà la prima Coppa Davis per la Croazia. Da poco è diventato allenatore di una promessa croata, Cilic, con cui ha anche ripreso a giochicchiare qualche doppio. Ma lui resterà sempre l’uomo di Wimbledon.

 
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Pubblicato da su 30 aprile 2011 in Personaggi

 

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Profili 5.Carlos Spencer

Esistono nazioni la cui immagine sportiva è inscindibilmente legata ad una disciplina. Lo è l’India per il cricket, la Giamaica per l’atletica o il Brasile per il calcio. La Nuova Zelanda non si esime dall’accostamento: pronunci il suo nome e il pensiero corre veloce al rugby. Lo sport della palla ovale, chiare origini anglosassoni, è praticatissimo sull’isola di Sua Maestà come pure in quelli che furono i domini coloniali britannici a sud dell’equatore, ma l’icona mondiale sono loro, gli All Blacks, la nazionale sfoggiante la felce argentata come simbolo. Di questa selezione, quasi imbattibile nei suoi tour ma che buca immancabilmente l’appuntamento col titolo mondiale fatta eccezione per la prima edizione del 1987, ha fatto parte un istrione a cavallo del passaggio tra i due millenni. Forse ai più, in special modo alle damigelle, sarà rimasto impresso il volto d’angelo di Doug Howlett, ma se anche voi vi ricordate di uno che giocava diverso dagli altri, allora sapete chi è Carlos Spencer. Carlos è il Modigliani del rugby, l’artista sregolato che dipinge tutto a modo suo con stile inconfondibile e anche nelle situazioni delicate prende decisioni avventate che provocano quel brivido alla spina dorsale per cui vale tanto la pena vivere. Se l’obiezione mossa è che non siano tutte scelte prese con criterio, ponderate e che le stesse hanno segnato sanguinose sconfitte o ne abbiano posto i prodromi (vedi palla intercettata da Mortlock e fuga per la vittoria come neanche Pelè e Stallone con prima meta australiana nelle semifinali di Coppa del Mondo 2003, momento scenico poco indicato per errori), allora non avete capito che stiamo argomentando su due piani differenti del gioco: anche i poeti non hanno mai vinto una guerra, pur sapendo descriverla così bene. Qui non siamo alla ricerca del giocatore perfetto, del robot da laboratorio (o da palestra) creato attraverso abile indottrinamento per diventare il migliore. Qui parliamo di chi la gente allo sport la fa avvicinare emozionandola, forse prima ancora divertendola. Spencer è uno di questi, una gemma che con la sua lucentezza attrae a sé anche i profani del rugby (come lo era chi scrive) conquistandoli con la sua fantasia, i passaggi imprevedibili, le sue improvvisazioni al sax, pure con quell’espressione guascona e un po’ spiritata che fa tanto faccia da pizza. Cristallino che per permettersi certe giocate la base tecnica posseduta dev’essere di prim’ordine, condita da quel pizzico di speziato che dà sapore aggiunto. Non a caso il nostro è conosciuto col titolo di King Carlos che suona molto regnante europeo rinascimentale. Nelle sue vene a ben vedere scorre sangue nobile, dettato non dall’appartenenza aristocratica ma all’etnia Maori, gli abitanti originali della Nuova Zelanda, quella che loro ribattezzarono Aotearoa, “la terra della grande nuvola bianca”. Questa appartenenza alle radici della sua terra è la ragione per cui diverse volte prima della gara ha guidato l’haka, la danza rituale dei nativi con licenza di intimidire, onore spettante al più anziano tra i giocatori in campo che vanti origini Maori. Per una decina di incontri ha anche accettato di vestire la maglia dei New Zealand Māori, XV rappresentativo degli autoctoni composto dunque da soli giocatori che abbiano antenati nativi dimostrabili. Nonostante la grande notorietà raggiunta a livello internazionale il suo rapporto con gli All Blacks è stato spesso travagliato, dovendo lottare contro una concorrenza spietata ed agguerritissima per un posto nei quindici. Los, il nomignolo con cui gli piace farsi chiamare, ha sempre dichiarato che per lui non è fondamentale la posizione che ricopre in campo, mediano di apertura o estremo, l’importante è scendere sul terreno piuttosto che fare muffa in panchina, anche se ovviamente la sua inclinazione naturale è indossare il numero 10, quello destinato all’apertura. La controindicazione in materia sta nel fatto che in questo ruolo l’isola che si trova ai nostri antipodi vanta da sempre un’imbarazzante quantità di alternative, tutte qualitative tra l’altro, e il periodo in cui Spencer era all’apice dello splendore non ha fatto differenza, avendo come superbo rivale Andrew Mehrtens, che in più di un’occasione gli è stato preferito grazie anche ad un uso più sapiente del gioco al piede. L’uomo di Levin, cittadina dell’Isola del Nord, inizia ad entrare nel giro della nazionale maggiore appena ventenne, ma per il debutto ufficiale in un test match dovrà aspettare quasi due anni, quando nel 1997 viene schierato a Wellington contro l’Argentina. È la sua occasione per brillare e la partita che mette in mostra parla da sé: l’avversario non sarà dei più probanti visto il roboante punteggio finale, 93 – 8, ma firmarne 33, record per un esordiente kiwi, conditi anche da due mete è senza dubbio un bel biglietto da visita. L’anno d’oro indossando la maglia dei tutti neri però sarà il 2003, quando il coach John Mitchell decide di puntare su di lui facendogli disputare tutte le partite previste, che lo porteranno a guidare la squadra al grande slam nel Tri Nations, classico torneo disputato tra le tre potenze dell’emisfero australe, Wallabies, Springboks e All Blacks appunto. L’anno è lo stesso dei mondiali australiani però, e l’epilogo già conosciuto: sconfitta in semifinale contro i padroni di casa. Nonostante la delusione per l’ennesimo titolo sfuggito ai sempiterni favoriti negli occhi della gente resterà comunque l’immaginifico passaggio no look da sotto le gambe che King Carlos consegnò a Rokocoko spianandogli la strada per la meta contro i sudafricani nei quarti di finale. Ennesima pennellata d’autore, ma dopo il mondiale inizia il rinnovamento della nazionale e lui ne è una vittima. Sempre a quella stagione è legato il terzo titolo ottenuto a livello di club con i Blues di Auckland in quello che allora era ancora il Super 12 (poi diventato Super 14 e attualmente Super Rugby con l’espansione a 15 squadre), campionato tra le migliori squadre del già citato emisfero sud. Nei Blues Spencer trascorre gran parte della carriera, trionfando in due edizioni consecutive, 1996 e 1997 e restandovi sino al 2005. La voglia di mettersi alla prova, la ricerca di nuovi stimoli lo porteranno nel vecchio continente per cimentarsi in una nuova realtà, quella dei Northampton Saints del campionato inglese. Resterà qualche stagione accaparrandosi subito le simpatie dei tifosi, ma quest’anno ha deciso di compiere l’emigrazione opposta tornando alle origini o quasi: ancora Super Rugby ma stavolta non con una rappresentativa della terra natale, bensì i Lions di Johannesburg, Sudafrica. Vedremo cosa saprà ancora regalarci a discapito di un passaporto non più floridissimo. Vai a sentire l’opinione degli appassionati, in particolar modo quella degli appartenenti alla nazione kiwi, e l’aggettivo più ricorrente per descriverlo risulta “entertainer”, intrattenitore ma anche spettacolare, perché dava piacere vedendolo all’opera, anche se magari altri erano i colleghi ritenuti più forti in assoluto perché qualche punto debole lo aveva oltre ai già citati: nel corso degli anni gli è difettata una certa continuità nei calci piazzati, dove non ha mai esibito l’affidabilità del suo successore, quel Daniel Carter diventato recordman di punti neozelandese ed autentica macchina per segnare; i fan poi scherzosamente non gli perdonano alcune réclame pubblicitarie, bollate come ridicole. Ovvio poi che l’acume tattico e la capacità di leggere le pieghe ed i ritmi della partita non siano mai stati una prerogativa di Carlos, ma di questo abbiamo già parlato: lui incarna l’anima pura, selvaggia di questo gioco, la voglia spassionata di attaccare, segnare punti, divertirsi, esprimendo un concetto banale di prendere il rugby per quello che è, un gioco. Per giocatori così una maglia dovrebbe essere disponibile sempre in qualsiasi squadra, a prescindere.

 
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Pubblicato da su 24 aprile 2011 in Personaggi

 

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Profili 4.I Gemelli Sedin

Un’altra stagione regolare Nhl si è conclusa oggi, una spicciolata di ore in attesa febbrile e poi scatteranno i playoffs, incerti come sempre nella lega di hockey più ricca di talento del mondo, tanto incerta che i campioni in carica, i Chicago Blackhawks, hanno agganciato la post-season con un piccolo miracolo e partiranno con la testa di serie più bassa ad ovest andando subito a cozzare contro quella che in questi mesi si è rivelata essere la corazzata della lega, i Vancouver Canucks. I canadesi hanno terminato le 82 gare di stagione vincendone più di tutti, 54, e perdendone meno, solo 19, collezionando la bellezza di 117 punti, primi con distacco come il Merckx dei bei tempi. Merito della straordinaria annata che cade in concomitanza con il 40° anniversario dalla fondazione del team, evento celebrato in città con una qual certa enfasi, va dato molto alla coppia d’oro dell’hockey, i gemelli più famosi di Svezia, Henrik e Daniel Sedin. I due sono omozigoti e condividono tutto da sempre, anche i riconoscimenti individuali che spesso ricevono ex-equo. A separarli forse solo la posizione sul ghiaccio e lo stile di gioco: più passatore Henrik, maggior finalizzatore Daniel; in entrambi i casi, macchine da punti come pochi altri, tanto che han concluso al primo (il che significa secondo Art Ross Trophy consecutivo per il più anziano dei gemelli) e quarto posto della classifica generale dei punti totali, ottenuti sommando i goal e gli assist. In carriera han realizzato quasi gli stessi punti: quasi, perché da buon fratello maggiore, seppur di soli sei minuti, Henrik ne ha totalizzato qualcuno in più. Averli in squadra assieme, impagabile. Il loro modo di giocare in simbiosi ormai è celebrato in tutti i circoli Nhl, tanto che a volte il dubbio che siano telepatici pare legittimo. I due pattinano assieme da una vita intera, conoscono l’altro meglio di loro stessi e si cercano continuamente, trovandosi spessissimo con passaggi no-look, che indicano chiaramente come sappiano sempre dove si trova l’altro sul ghiaccio. Col passare degli anni inoltre da ragazzi intelligenti quali sono han lavorato molto sui loro difetti e ampliato le loro abilità, arrivando a diventare ancora più pericolosi. Non è un caso che quest’anno Henrik abbia vinto la classifica degli assist ma Daniel sia arrivato terzo, piazzandosi invece quarto a pari merito col compagno di squadra Kessler in quella dei goal. Indizi di grande completezza. Dato il loro modo di giocare corretto, pulito, ma volendo esplorare il lato oscuro della luna anche troppo morbido per una lega di duri, all’inizio della loro carriera americana sono stati ribattezzati malignamente “le sorelle Sedin” e tacciati di non essere abbastanza fisici. Ancora oggi si pensa che soffrano i contatti, che possa essere un modo per estrometterli dalla gara, ma è pur vero che grazie anche alla loro correttezza si sono costruiti uno status per cui sono visti come intoccabili e cercare spedizioni intimidatorie su uno dei due è caldamente sconsigliato, dato che ogni squadra vanta tra le proprie fila dei bodyguards deputati a proteggere, ma soprattutto vendicare le ruvidezze subite dalle proprie star, scatenandosi sull’aggressore come una muta di cani sulla malcapitata volpe. I Sedin però conoscendo la loro debolezza han saputo migliorare anche questo aspetto del loro gioco, irrobustendo la struttura fisica e non tirandosi indietro di fronte alle sporadiche risse in cui sono coinvolti. Una vita intera dedicata all’incandescente passione per l’hockey, iniziata in terra scandinava dove a soli sedici anni riuscirono ad ottenere il primo contratto professionistico per il Modo Hockey, squadra della loro città natale, Örnsköldsvik. Giocano nella stessa linea, cioè sono contemporaneamente sul ghiaccio solo da due anni, da quando cioè Daniel ha scelto di non giocare più centro come il fratello ma spostarsi al ruolo di ala sinistra. Il talento espresso è abbacinante, e di anni ne servono solamente altri due perché i gemelli vangano premiati come giocatori dell’anno in Svezia e naturalmente considerati interessantissimi prospetti per il draft Nhl, dove diversi sopraccigli si sono alzati vedendo la coppia dai capelli rossi. Siamo nel 1999, e al Fleet Center di Boston, luogo deputato alla cerimonia delle scelte, i Sedin si presentano con due convinzioni: sono campioni europei juniores in carica ed hanno appena assaporato la prima medaglia con la squadra maggiore conquistando il bronzo nei mondiali norvegesi, ma probabilmente dovranno separare le loro carriere giocando per squadre differenti nonostante le alternative presentategli dal loro agente. Il general manager dei Vancouver Canucks Brian Burke ha però un’idea che gli frulla in testa. I canadesi hanno solamente una scelta al primo giro, seppure alta, la due. Possono accaparrarsene uno, ma se l’altro viene scelto con la prima chiamata il sogno sfuma e comunque difficilmente scendono sotto la quinta. Quando però Atlanta, che ha vinto la lotteria per il sorteggio, lascia trapelare l’interesse per il ceco Patrik Stefan Burke parte con un giro di chiamate che dà il via ad un vorticoso giro di scambi tra giocatori e diritti di scelta. Risultato: Vancouver ottiene la chiamata numero tre e si porta a casa i gemellini in coppia. Genialata di Burke accentuata dal fatto che il ceco diventerà una delle bufale più colossali nella storia del draft. Dopo di allora niente rischia più di separare i gemelli dell’hockey, che iniziano a macinare gioco in Canada senza dimenticarsi di rispondere presente alle convocazioni della Svezia per le competizioni internazionali. Con la maglia gialla della nazionale si tolgono la gigantesca soddisfazione di regalare alla loro gente la medaglia d’oro olimpica nel 2006 a Torino, sconfiggendo in finale la Finlandia pur senza recitare il ruolo di protagonisti. Col passare degli anni scalano le posizioni diventando stelle indiscusse della lega, anche se distinguerli resta sempre un dilemma: se è vero che in campo almeno indossano numeri diversi, il 22 Daniel ed il 33 Henrik, e da quest’anno sono riconoscibili anche perché Henrik è diventato capitano, contrassegnato da una C sulla divisa, mentre Daniel è rimasto alternate, ovvero il nostro vice, che sfoggia invece una A sul petto, resta il fatto che persino il loro allenatore ha candidamente ammesso di avere serie difficoltà a riconoscerli durante gli allenamenti. Scherzando si dice che il primo vero marchio di distinzione avverrà quando uno dei due perderà un dente in uno scontro di gioco. Restando nel campo delle ironie a volte si vocifera ci sia un terzo gemello separato alla nascita, l’attore Ben Foster. In realtà i Sedin non han mai fatto mistero nell’aver piacere a restare assieme. Pure durante la stagione del lockout, 2004-05, quando i proprietari abbassarono la saracinesca lasciando l’America senza hockey per un anno, i due decisero di tornare in Svezia nella loro prima squadra, il Modo. Assieme, of course. Sempre assieme hanno gestito tutti i loro contratti, che risultano identici sia sotto il profilo temporale che in quello economico. Ormai da più di un decennio i due svedesi giocano a Vancouver, e quest’anno sperano siano quello buono per coronare il sogno di poter finalmente toccare con mano la Stanley Cup. Negli ultimi anni la squadra si è sempre ben comportata durante la stagione regolare, per poi arenarsi puntualmente sullo scoglio della semifinale di Conference, nelle ultime due occasioni sempre per mano dei Blackhawks. Il destino le pone di fronte l’una all’altra ancora una volta, concedendo ai Canucks l’ennesima chance di poter vendicarsi delle eliminazioni passate. Dopo aver vinto il titolo nella scorsa stagione a Chicago han dovuto rinunciare a qualche elemento importante per questioni di budget, quindi i pronostici potrebbero sorridere ai Sedin, ma mai dare nulla per scontato in una serie di hockey. Dicono che conoscere il proprio doppio porti male. A Vancouver non ne sono così convinti, o almeno lo sperano.

 
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Pubblicato da su 11 aprile 2011 in Personaggi

 

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Profili 3.Harri Olli

Come un dito ti possa cambiare la vita. Se poi si tratta di quello medio la citazione trova maggiore spiegazione. È quello successo a novembre ad Harri Olli, incarnazione dello stereotipo dell’atleta talentuoso ma discontinuo. E terribilmente incapace di gestirsi ed essere gestito. Un’altra stagione di salto dal trampolino se n’è andata in archivio, guarda caso con l’ennesimo trionfo di un austriaco in classifica generale (stavolta l’onore è toccato a Tomas Morgenstern) ed il ritiro di uno dei più grandi di sempre della disciplina, il polacco dai tristi occhi cerulei ma dal baffetto allegro Adam Malysz che ha pensato bene di decorare la sua ultima gara in carriera in quel di Planica, Slovenia, con la ciliegina del 92° podio. Bruscolini per l’uomo da Wisla. A salutare il quattro volte vincitore della coppa del mondo c’erano tutti, o meglio quasi tutti. Harri chissà dove si trovava, forse davanti al televisore nella sua residenza di Lahti dove convive con la  ragazza, forse stava studiando matematica sui banchi dell’università di Rovaniemi o forse era impegnato a fare altro. Di certa c’era solo la sua assenza, una stagione che il ragazzo dal visino d’angelo ha deciso di interrompere praticamente all’esordio. Ricapitolando i fatti: 28 Novembre 2010, domenica mattina. Vanno in scena i salti di qualificazione per la gara di Kuusamo, prima della stagione invernale. Teoricamente una formalità per un atleta dello spessore di Olli, nonostante con il finlandese la parola teoria mal si associa alla pratica in quanto la sua discontinuità è proporzionale al talento espresso nei periodi di forma migliore, mentale ancor prima che fisica. Anche sul suolo natale se ne ha conferma. Le condizioni atmosferiche non sono delle più propizie, non a detta di Harri almeno. Troppo vento, meglio rimandare e onestamente questa è l’opinione che si fa strada non solo nella mente del lappone, ma pure in quella della maggioranza degli addetti ai lavori. Non per i giudici però, che valutano diversamente. Il finnico quindi deve esibirsi dal trampolino, ma il salto come da pronostico si rivela un mezzo fallimento. Appena 77 metri, misura scarsina, Olli nemmeno si preoccupa di piazzare il telemark all’atterraggio, 57esima posizione e gara da osservare col binocolo. Olli però stavolta non la prende col savoir faire tipico dei saltatori, convinto di esser stato penalizzato, e pensa bene di dire la sua alle telecamere ed indirettamente anche all’operato dei giudici. Siccome un gesto vale più di mille parole, voilà un bel dito medio che si innalza dalla mano destra per un cristallino primo piano in diretta. Simpatico diranno alcuni, cafone altri, ma in fin dei conti una marachella specie se ad esser presi come metro di paragone sono atteggiamenti provenienti da altri sport. Già, ma questo è sci nordico, dove esiste un regolamento che viene applicato e dove non si è abituati a certe bizze da parte degli atleti. In breve tempo le prime conseguenze dal gesto: squalifica dalla gara di Kuusamo, ma questa era facile, ed automatica squalifica per quella successiva che sarebbe stata disputata a Kuopio, sempre in Finlandia. La vicenda non finisce qui. Ai vertici alti il comportamento non è proprio andato giù, tanto che arriva pure l’allontanamento dalla squadra nazionale finlandese, il che equivarrebbe in automatico anche al rischio più che tangibile di veder sfumare le possibilità di partecipare ai mondiali di Oslo previsti per Febbraio. Una bella batosta, ma la bufera prevede ancora qualche ulteriore affondo: Kimmo Kyykkänen, il tecnico che lo seguiva da diversi anni, decide che la misura è colma ed interrompe il rapporto lavorativo che intercorreva tra i due. Senza avventurarsi nei dettagli lascia trapelare che quello di Kusaamo è solo l’ultima goccia di una serie di episodi poco edificanti che hanno portato il bicchiere della sua pazienza a traboccare. Prima di poter tornare alle gare, e soprattutto tornarci per recitare un ruolo da protagonista, il suo ex allievo dovrà mettere ordine nella sua testa e nella turbolenta vita privata, sostiene. Già, perché quando si fa il nome del nostro nell’ambiente di chi almeno ha qualche nozione di salto con gli sci e un paio di gare le ha seguite la prima cosa cui l’interlocutore pensa non sono i suoi risultati sportivi, ma l’extra, quello che succede nei bar dove il finnico ha la sinistra tendenza ad alzare il gomito con implacabile frequenza e a dare del tu al bicchiere non solo in senso metaforico: pare infatti che in un alterco con la sua fidanzata degenerato in rissa il sopracitato bicchiere sia stato usato come corpo contundente. Se poi al carico si aggiunge che nelle baruffe conosce come muoversi avendone bazzicate più di una, sono documentate sbronze anche nell’imminenza delle gare e i modi garbati nei confronti della stampa in più di un’occasione sono considerati degli optional, il quadro è completo e non si tratta esattamente di un Gauguin. Peccato, un vero peccato perché il talento sprigionato da quel fisico di poco più di 1,70m non era discutibile, e avrebbe consentito al ragazzo di competere coi più grandi, o quantomeno di diventare ospite fisso dei top 10. Ma un carattere particolare lo ha portato a non offrire mai grande continuità anche nel corso di una stessa serie di salti: primo da applausi, seconda serie disastrosa o viceversa. In sostanza, diversi fattori ma identico risultato finale, ovvero prestazione compromessa. Tecnicamente era un volatore puro, adatto dunque ai trampolini più lunghi ed alle grandi distanze, quando si atterra oltre i 200 metri per capirci. La sua debolezza mentale ha però fatto si che non riuscisse mai a completare il processo di crescita tecnica, lasciando lacune che l’umore del momento sapevano accentuare o nascondere. Avrebbe potuto vincere molto più del suo bottino finale insomma, e per questo resterà un talento incompiuto, uno dei tanti, troppi atleti cui viene riconosciuto enorme potenziale ma alla prova dei fatti non riescono a trovare il canale giusto per esprimerlo. Parlo di bottino finale perché Olli si è ritirato dall’attività agonistica quest’anno, a soli 26 anni appena compiuti. La decisione è stata presa dopo il ritorno dalla squalifica ed i deludenti risultati sul trampolino nipponico di Sapporo, cui forse il finlandese legava le soddisfazioni maggiori della carriera. Fu sull’isola di Hokkaido infatti che ai mondiali del 2007 riuscì a strappare un inaspettato argento concludendo di soli due decimi dietro allo svizzero Ammann, quando ancora non aveva ottenuto nessun risultato di rilievo nel circuito in cui aveva esordito cinque anni prima. La sua migliore stagione, sostanzialmente anche l’unica, fu quella del 2009, dove nei primi mesi dell’anno riuscì ad aggiudicarsi tre prove di coppa del mondo, che rimangono anche i suoi unici successi. A completamento dello scarno palmares restano da citare i due gradini del podio meno agognati ottenuti nella prova a squadre ai mondiali del 2008 e del 2010. Cosa farà ora non è dato sapere. Dopo l’annuncio del ritiro ha sostenuto di non voler abbandonare il mondo del salto con gli sci, di tornare a Rovaniemi, suo luogo di nascita, per mettersi a lavorare in un negozio di cera per gli sci di un suo amico. Come sostiene il suo connazionale Nieminen, un esperto di salto, in conformità ad il suo carattere ancora una volta il ragazzo ha scelto la via più facile, dimostrando di non avere quella ferrea volontà, quella forza mentale che sono il pane per chi si cimenta nello sport, dove Olli potrebbe ancora avere una carriera costellata da soddisfazioni in quanto certe doti che possiede non si insegnano. Però Harri è uomo ormai, è consapevole della decisione che ha preso e va rispettato per questo. Lui stesso sembra non farne un dramma. Difficile dunque pronunciarsi dicendo se sia una storia finita bene o male. Certo è che la sua assenza passerà quasi inosservata ai più, ma sapendo quanto avrebbe potuto valere del rammarico resta.

 
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Pubblicato da su 30 marzo 2011 in Personaggi

 

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Profili 2.Jonathan Edwards

Ci sono record che simboleggiano molto più del freddo intreccio di cifre da cui sono formati. 18.29 è uno di questi. Diciotto metri e ventinove centimetri rappresentano il record mondiale di salto triplo, disciplina forse un po’ snobbata dell’atletica, un record stabilito a Göteborg in una calda giornata estiva, il sette agosto del 1995. Un lunedì per la precisione, e non si tratta di una precisione da poco nel nostro caso, perché teoricamente quel salto potrebbe non essere mai stato effettuato ed il record mai esistito se quella gara si fosse disputata solo ventiquattro ora prima. L’artefice di quel balzo prodigioso che lo ha consegnato alla storia dell’atletica e pardon, parere personale anche dello sport, si chiama Jonathan Edwards ed è inglese, forse un po’ meno british in quanto nativo di Londra e si sa che quelli della capitale sono razza diversa rispetto agli altri isolani. Jonathan è figlio di un pastore anglicano e come ovvio in una famiglia dove l’influenza del padre è molto forte anche lui seguiva rigorosamente i principi della sua fede, principi che portavano a considerare la domenica come giorno sacro da dedicare a Dio, dove dunque era proibita ogni forma di lavoro, anche la partecipazione a competizioni sportive professionistiche. Non di rado il nostro scelse volontariamente di non partecipare a gare che si svolgevano nel giorno festivo cristiano, rinunciando addirittura ai mondiali di Tokyo del 1991, vinti dallo statunitense Kenny Harrison, di cui risentiremo parlare. “Non mi vendo per una medaglia” fu il suo eloquente commento. Solo dopo che ebbe ponderato con attenzione la cosa anche col padre si decise ad essere più flessibile riguardo le partecipazioni alle gare: se Dio gli aveva dato quel talento speciale era perché lui gareggiasse, e così fu. La prima competizione di rilievo che gli si presentava dinanzi dopo la decisione erano i campionati mondiali di Stoccarda del 1993: 17.44 m di misura e medaglia di bronzo al collo dietro solamente all’americano Conley ed al russo Voloshin, risultato di prestigio che lo proiettava verso un’ascesa che da lì in poi sarebbe stata fulminea. Aveva 27 anni all’epoca, ed i prossimi mondiali svedesi distavano solo due anni. Lo stesso anno dei mondiali, quel mitico ’95, lo vide protagonista di altre misure pazzesche, tra cui il quasi irreale 18.43 m conseguito durante la Coppa Europa in Francia, ma ottenuto però con troppo vento a favore e dunque non omologato. La gara che si tenne in terra scandinava fu leggendaria: durante il suo primo salto Edwards fu il primo uomo a superare legalmente, cioè senza l’aiuto di una spinta del vento eccessiva, la barriera dei 18 metri, con un salto di 16 centimetri superiore. Record del mondo of course a suoi stessi danni (la sua misura precedente era 17.98 stabilita a Salamanca l’estate stessa), sorrisi ed applausi dagli spalti, ma non era finita. Quel record durò una ventina di minuti circa. Nel salto successivo si spinse oltre di altri 13 centimetri, gara finita se mai fosse realmente cominciata, chiavi dello stadio in tasca e tutti a casa. Anni dopo dichiarò che quel giorno non pensava di ottenere una misura simile, in quanto quando si era svegliato era piuttosto nervoso in attesa di saltare tanto che per calmarsi aveva giocato a scacchi con Curtis Robb, ottocentista britannico. Non il passatempo più popolare tra gli atleti di qualsiasi sport ipotizzo. Ma come già visto Edwards non aveva comportamenti esattamente assimilabili a quelli della maggioranza. Primo fra tutti il suo modo di saltare, la sua eleganza, la sua tecnica, l’impressione che non stesse realmente facendo il massimo sforzo ma stesse semplicemente librandosi in volo con la stessa leggerezza di un gabbiano. Già, lo stesso gabbiano Jonathan del celebre romanzo di Richard Bach a cui questo atleta è accostabile non solo per il nome in comune: così come il bianco pennuto anche il britannico è diverso dagli altri perché il suo primo desiderio non è mangiare, ma imparare a volare nel migliore dei modi possibili, trovare il volo perfetto. Quel lunedì ci arrivò davvero molto vicino. L’anno successivo arrivarono le Olimpiadi a cui ovviamente l’inglese si avvicinava con tutti i favori del pronostico e dall’altro lato della medaglia tutta la pressione possibile. I Giochi di Barcellona erano stati una delusione, con il solo 16° piazzamento ottenuto nel turno di qualificazione, quelli di Atlanta furono contrassegnati dalla sfida col padrone di casa Kenny Harrison, già il vincitore dei mondiali giapponesi. Edwards arrivava da 22 vittorie consecutive ma come nei migliori thriller fu l’americano che piazzò la zampata nel primo salto ed allungò poi stabilendo il primato olimpico con una prestazione da 18,09 m. Il detentore del record invece dovette salvarsi al terzo salto dopo i due nulli precedenti, e solo al quarto tentativo riuscì a piazzare la misura che lo issò sul secondo gradino del podio. Per l’oro olimpico, la soddisfazione massima per un atleta, dovette aspettare che la fiaccola si spostasse in terra australiana, a Sidney, dove arrivò da campione europeo in carica (oro a Budapest nel ’98). “All’epoca mi sentivo come il miglior golfista senza un Open in bacheca o il miglior tennista senza aver mai vinto uno Slam” dirà in seguito. Falla riempita e consacrazione a uno dei più grandi atleti britannici di sempre, se non il più grande. Passa un altro anno e a Edmonton riuscirà a bissare il titolo mondiale, allargando ulteriormente un palmares favoloso. Si ritira a 37 anni a si dedica alla televisione, diventando commentatore sportivo per la BBC ma partecipando anche a programmi religiosi. Durante la sua carriera Jonathan non aveva mai mancato occasione per ricordare quanto fosse importante la fede ed il suo rapporto con Dio che lo guidava in tutto ciò che faceva, ma una volta abbandonati i campi di atletica qualche dubbio iniziò ad assillarlo, fino a farlo addirittura diventare ateo ed evoluzionista, come ha lui stesso dichiarato in un’intervista del 2010. Non essere più confinato al solo mondo dell’atletica gli ha allargato gli orizzonti e modificato le certezze, le convinzioni, sostiene. Ma non è certo questo che influisce sul come sia stato atleta. Non inganni il volto serafico e sorridente, il fisico normale: Edwards è stato un atleta pazzesco, un all-around già ai tempi del liceo, capace di correre i 100 metri in 10.48 s, di saltare come un cerbiatto, fortissimo in sala pesi dove aveva uno squat personale di 200kg, numero formidabile per un uomo così magro. Il suo record dura ancora oggi, dopo che sono passati 15 anni e ci stiamo appropinquando al 16°. Da quando la misure vennero ufficialmente registrate nel 1912, il record di specialità non è mai durato così a lungo. Jonathan stesso se ne stupisce, convinto che sarebbe stato lui stesso a migliorarlo ulteriormente. Probabilmente la sua generazione aveva più talenti, sostiene, probabilmente al giorno d’oggi l’atletica non attrae più i migliori atleti che sono maggiormente propensi a cimentarsi in altri sport, che reputano più divertenti o remunerativi. Certo ci sono buoni atleti come il portoghese Evora o il brasiliano Gregorio, o anche l’eccentrico connazionale Phillips Idowu, fresco vincitore dei mondiali di Berlino del 2009 e degli europei di Barcellona dell’anno scorso. Buoni atleti, certo, ma nessuno che sia riuscito a fare quell’ultimo gradino che permetterebbe di ragionare su un piano differente. Ma forse un erede c’è, il francese Teddy Tamgho, recentissimo detentore del record indoor con un salto di 17.92 m agli europei di Parigi. Il ragazzo è giovane ed ha stoffa, è allenato da Pedroso e può migliorare eccome, prossima sfida per lui superare la barriera dei 18 metri. Se e quando saprà abbattere quest’ostacolo, allora potrà iniziare a dare la caccia al più grande di sempre, e magari finalmente batterlo un giorno. Il gabbiano è lì che aspetta.

 
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Pubblicato da su 16 marzo 2011 in Personaggi

 

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Profili 1.Sarunas Jasikevicius

Un artista. Uno sbruffone. Una lingua lunga, kilometrica, e decisamente tagliente, ma da uno con una faccia come la sua, che sembra stata scalpellata da uno scultore cubista non ci si potrebbe aspettare diversamente. Uno con un volto così è predestinato a far parlare di sé. Sarunas Jasikjevicius è lituano e dà del tu al pallone arancione. È lituano perché così sta scritto sul suo passaporto, che in carriera ha dovuto mostrare innumerevoli volte, ma se state pensando alla fiera riservatezza russa, che può essere scambiata in gelida freddezza artica o alterigia, avete imboccato la strada sbagliata. Lui è diverso. Lui parla, parla, straparla e gesticola come un ossesso con tutti, compagni, arbitri, allenatori, pubblico, con la sua faccia spiritata che sarebbe degna di un ritratto di Munch, e questo ovunque abbia giocato. Cose da leader carismatico, cose da uno che il basket lo sa giocare per davvero e lo capisce nelle sue sfumature come pochi. Cose da uno che vuole vincere sempre, fosse anche il torneo di bocce estivo dell’oratorio, e che ama esercitare il proprio controllo totale su tutto sfruttando il suo magnetismo nell’attrarre ciò che lo circonda. Sarunas è un vincente. Ha cambiato casacca un sacco di volte in carriera, ha giocato in squadre prestigiose, e ha vinto. Tanto. E ancora non vuole fermarsi. Quest’anno il Fenerbahce, la sua squadra, ha vinto la coppa turca appena arrivato e sta conducendo il girone nelle top sixteen dell’Euroleague ben impressionando ed ambendo a traguardi più prestigiosi, come le final four. Prima della tappa turca ha giocato con Barçelona, Maccabi, Panathinaikos, il gotha del basket europeo insomma, e con ognuna di queste squadre ha vinto almeno un’Eurolega. Almeno, perché lui è un vincente. Quando era al suo apice qui, nel vecchio continente, ha deciso di provare l’avventura oltreoceano e si è accasato agli Indiana Pacers. Ha tenuto duro per due anni, ma lì ha fallito. Non lo hanno capito, non gli hanno dato modo di farsi capire. Non difende, è un bianco europeo che pretende di farsi sentire, troppo lento per un ruolo in cui ormai stanno emergendo sempre di più ragazzi atletici e potenti. La situazione della squadra poi, confinata nella melma della medio bassa classifica, non lo aiutava, lui abituato a giocare per vincere, sempre. Quando dopo un anno e mezzo è stato impacchettato nella trade che ha lo ha portato con diversi altri compagni a Golden State, si è capito che la sua seconda avventura americana si sarebbe chiusa quella stagione. Anche nella baia non riuscì ad entrare nelle rotazioni, finendo relegato ai margini della panchina, cosa che lui, il numero uno d’Europa, non poteva accettare. Una delusione per questo lituano atipico, cresciuto cestisticamente in terra yankee, prima alla Solanco High School in Pennsylvania e successivamente nei Terrapins di Maryland, college prestigioso nel programma cestistico, che alla nazionale americana stava per regalare la prima grande delusione nella semifinale olimpica di Sidney, quando un suo tiro da tre allo scadere che avrebbe proiettato la Lituania in finale si stampò sul ferro, grazie anche all’ottima pressione di Jason Kidd. Quell’edizione fu bronzo per l’uomo da Kaunas e a posteriori il primo segnale di vacillamento della potenza a stelle e strisce. Al torneo australiano seguì l’approdo in Catalogna dopo le due stagioni spese  a Rytas e Lubiana. In terra di Spagna arrivò il titolo al primo anno, ma per il trofeo più ambito, quell’Eurolega che ai blaugrana era già sfuggita quattro volte in finale, si dovettero aspettare le final four in casa, al Palau Saint Jordì nel 2003. Fu vittoria storica perché prima in assoluto per il club, anche se scorrendo il roster si scopre che in quel Barçelona oltre a Jasikevicius militavano Bodiroga, Fucka, il futuro NBA Varejao, Navarro, Femerling. Fu storica anche per il lituano, che a fine stagione passò tra le fila del Maccabi, squadra dall’illustre storia e bacheca, dove risplendevano già 3 titoli continentali ottenuti in otto finali disputate a partire dagli anni ’70. A Tel-Aviv il lituano andò a comporre un quintetto fantastico che oltre a lui vedeva Anthony Parker, Tal Burstein, Maceo Baston e Nicola Vujcic, un mix superlativo di talento, tecnica, atletismo che ne fecero la squadra schiacciasassi in Israele, scontatuccio, ma anche in Europa, dove per due stagioni imposero il loro meraviglioso gioco offensivo,  fatto comunque inusuale in un basket basato prevalentemente sulla difesa ed il gioco controllato, in cui spesso si vedevano (e si vedono) partite dal basso punteggio e dall’altrettanto discutibile spettacolo. Sarunas difende poco, vero. A volte omette del tutto, salvo poi sbracciarsi coi compagni per dei movimenti che loro s’intende, avrebbero dovuto fare. Ma un talento così cristallino nell’organizzare il gioco d’attacco, nel capire quello che propone la difesa per attaccarla al meglio è dote rara. Lui è un fuoriclasse e quelli come lui hanno capacità di lettura superiore, quelli come lui sanno far sembrare semplici cose complicate, quelli come lui sembra stiano facendo passaggetti di due metri inutili ed invece i suddetti non fanno altro che muovere la difesa e concederanno ad un compagno un buon tiro; quelli come Sarunas sanno anche dar via passaggi che risplendono come diamanti purissimi e coi loro canestri risolvono situazioni delicate. Idolatrato dai tifosi israeliani, al culmine della sua parabola europea dopo tre successi consecutivi, è tempo di rivincite. Il lituano anomalo torna oltreoceano. Il contratto siglato con i Pacers parla di 12 milioni di dollari in tre anni, ma appunto con 12 mesi d’anticipo e non più nell’agricolo Indiana, ma sulle coste californiane la sua seconda avventura americana si interrompe. Cinque giorni dopo la risoluzione del contratto con i Warriors Jasikevicius si accasa ad Atene, sponda Panathinaikos che è campione d’Europa uscente, guidato da un guru della panchina, Zelimir Obradovic. Il primo anno non riesce a confermarsi campione, nonostante l’arrivo del titolo greco (che dal ’98 ad oggi i verdi hanno mancato in una sola occasione), ma la stagione successiva è quella buona. Contando compagni come  Batiste, Nicholas, il futuro TWolves Pekovic e lo zoccolo greco composto da Diamantidis, Spanoulis, l’inossidabile Alvertis, arriva per lui la quarta Euroleague, record assoluto a livello europeo in quanto ottenute con tre club diversi, primo e finora unico nella storia. La finale è con gli avversari storici del decennio, i moscoviti del CSKA guidati da Ettore Messina e battuti due anni prima: la partita nello svolgimento sarà un Giano bifronte, coi greci che controllano agevolmente nel primo tempo salvo poi farsi rimontare venti punti nel secondo e vedere Siskauskas, sbagliare il tiro che avrebbe sancito una clamorosa rimonta. Punteggio finale 73 – 71 ed ennesimo trofeo che finisce in bacheca per l’ex Maryland, che resterà ancora un anno sul suolo greco prima di vivere un periodo turbolento: la breve parentesi baltica di qualche mese con il Lietuvos, la squadra che lo aveva lanciato sulla ribalta continentale e che ora sta coltivando l’astro nascente Valenciunas, che accompagna fino alle top sixteen per poi accasarsi ad Istanbul, complice una situazione finanziaria traballante del club lituano, per la nuova avventura in una squadra di vertice, quel Fenerbahce che già aveva allestito un team per puntare al bersaglio grosso, in un anno dove il Barça campione uscente resta probabilmente il favorito più per dovere che per effettivi meriti, dove non sembra ci siano squadroni schiacciasassi, in cui dunque la contesa resta aperta ed il nostro è invischiato una volta di più. Forse vincerà anche quest’anno, forse no. Il 2011 è anche anno di europei che si svolgeranno proprio in Lituania, ma lui non ci sarà per far posto alle nuove leve: il contributo alla Patria l’ha già apportato con l’oro nel 2003. Indubbiamente Jasikevicius ha rappresentato l’élite nel ruolo di playmaker puro nell’ultimo decennio europeo, sapendo sempre elevare la qualità della squadra in cui militava. Per ritenerlo un grande del gioco è già abbastanza.

 
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Pubblicato da su 4 marzo 2011 in Personaggi

 

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