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Due Facce di una Finale

8-7. Punteggio strano, raro, associabile ad una partita pregna di punti nel baseball o alla più europeggiante pallanuoto. Certo meglio non spifferarlo agli olandesi che del baseball sono i freschi vincitori del mondiale avendo sopraffatto i favoriti cubani in finale. Ma senza dubbio le tradizioni, queste ancore del pensiero, non associano il gioco del diamante al nostro continente. Questo 8-7 però non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Più semplicemente è il risultato con cui la Nuova Zelanda ha battuto la Francia aggiudicandosi la corona del rugby dopo 24 anni di astinenza passati contorcendosi per i crampi allo stomaco causati da uno dei digiuni più insoliti nel panorama sportivo, in quanto colpiva quella che unanimemente era considerata la squadra più forte. Anche stavolta l’impresa non è stata semplice, ed i brividi hanno percorso la schiena dei tifosi a più riprese, perché quel che doveva essere scontato in principio tale non si è rivelato alla prova dei fatti. I facili profeti han perso un’altra occasione per starsene zitti. Ma si sa, loro non impareranno mai, in quanto oltre a dar vuoto fiato alle loro trombe stonate null’altro gli resta. I padroni di casa trasportati dalla marea nera che aveva seppellito i cugini australiani in una partita incredibile, i galletti giunti in finale tra le tante ombre e le poche luci, arrancando e godendo del favore della buona sorte, sfoderando in tutto il mondiale un solo gran primo tempo contro gli inglesi. Oltretutto già bastonati a dovere dagli stessi All Blacks in sede di girone eliminatorio. Storia già scritta come quando il lupo affamato incontra l’agnello. Neanche per sogno, ovviamente. Nessuno che valuta l’enorme pressione cui sono sottoposti i neozelandesi. Come simpaticamente detto, domenica anche le pecore avevano il teleschermo. Inoltre, l’aver asfaltato i temuti Wallabies in semifinale poteva aver già inconsciamente adagiato gli animi nella certezza della vittoria. Complessi di superiorità dell’emisfero australe, comprensibili d’altronde. Finora han vinto sei edizioni mondiali su sette. Sull’altro fronte, una squadra col rapporto giocatori – allenatore lacerato, un gioco champagne mai mostrato se non nelle evanescenti bollicine, giunta come 24 anni addietro, strane le coincidenze che riserva la vita, dove nessuno si aspettava con di fronte lo stesso avversario di allora. In un concetto, una squadra senza nulla da perdere, e capace di scherzi pesanti perché dotata certamente di talento da vendere. E un carattere patriottico che noi italiani in fondo abbiam sempre invidiato senza riuscire ad ammetterlo. Lo si dovrebbe subito intuire, dalla freccia umana che i francesi compongono durante l’haka maori tenendosi per mano, una freccia volta a perforare la corazza di certezze ed insinuarsi come un tarlo, un dubbio atroce nella sfrontata sicurezza neozelandese. Una freccia che varrà pure una multa dalla federazione in quanto aveva oltrepassato la metà campo. Così è. La battaglia è subito feroce, gli All Blacks provano subito ad imporre la loro foga in modo da stordire l’avversario ed imporre il proprio marchio sulla partita, ma i transalpini dimostrano di saper incassare e reagire con la giusta aggressività. Si tratta di una finale d’altronde, una finale senza domani in cui per difetto si sarà lavorato duramente almeno un anno per raggiungerla, se non un’intera carriera. Che fai, dosi? Ed è così che i Blues, bianchi nell’occasione per un gesto di cavalleria che consente agli avversari di mantenere il nero senza il sorteggio, incassano, barcollano ma restano in piedi. Subiscono una meta da polli facendosi abbindolare su di una rimessa e consentendo a Woodcock di marcare in scioltezza, ma Weepu cicca i calci piazzati. Il maori sembra sentire la tensione che avvolge lo stadio ed il suo piede spedisce tutti i calci distanti dai pali, e di molto. Battaglia feroce nel primo tempo che si conclude solamente 5-0, perché la precisione non risiede neppure in casa transalpina. Ma per loro chiudere sotto di cinque è un affare, il passivo avrebbe potuto tranquillamente essere di quelli che ti mettono zavorra sulle spalle liberando le alette della leggerezza agli avversari. Si torna in campo e lo spartito si ribalta: la Francia prende campo, e coraggio. Si gioca le cartucce che ha. La maledizione del mediano d’apertura dopo aver costretto all’uscita Parra (cui Thorn aveva ricamato lo zigomo) e aver colpito sia carter che Slade si abbatte anche su Cruden, costretto ad uscire per un brutto taglio con annessa torsione innaturale del ginocchio. Al suo posto Donald, illustre imbucato che la sorte designerà come uomo decisivo, essendo suo il calcio che donerà i 3 punti fondamentali ai neozelandesi. Un 8-0 che sembra dare quell’oncia di sollievo in più, vanificata nel giro di un paio di minuti dalla meta francese del capitano Dusautoir, una vera roccia cui aggrapparsi durante le tempeste. Con annessa trasformazione, siamo 8-7. Gli ultimi 20 minuti sono un calvario di maestosa intensità con una squadra che cerca disperatamente di spingere anche per guadagnare una sola, cruciale punizione, ed un’altra che si arrocca in difesa con tutte le sue forze. L’esito è conosciuto, la Nuova Zelanda resiste e sbanca il tavolo, ma in quegli ultimi concitati minuti è racchiuso il sapore dello sport, quello vero. Per una nazione che gioisce e getta nell’oceano il macigno che le opprimeva il torace, consentendole di gridare canti di felicità, ve n’è un’altra che si accascia sconfitta. La Francia ancora non ha vinto un mondiale e questi giocatori sanno bene che guadagnare un’altra finale tra quattro anni in terra d’Albione sarà un’impresa. Impresa che comunque non riguarderà molti di loro. Eppure la sconfitta viene gestita con grande dignità, sentire ancora una volta le parole orgogliose del capitano, il condottiero Dusautoir per averne riprova. Lui sì un esempio da seguire dentro e fuori dal campo. Lo sport come la vita premia solo un lato della medaglia, i vincenti, ma come sarebbe bello se in queste occasioni si ricordasse anche degli altri.

 
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Pubblicato da su 25 ottobre 2011 in Rugby

 

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Confesso di aver flirtato..

Con quel meraviglioso sport che è il rugby. Ero ancora imberbe bambinetto delle elementari, ma quel legame che mai pareva essere sbocciato è invece rimasto sotterraneo, coltivato pazientemente per anni fino a quando non è giunto il momento propizio perché sbocciasse. Lo ammetto, è uno sport di cui sono molto più appassionato che competente, e di regole e sottigliezze il rugby è pieno come il basket, dunque un neofita che si approcciasse per le prime volte vedrebbe solo grande agonismo ma capirebbe pochissimo di quel che succede, di cosa è concesso e non è concesso fare a quei trenta energumeni che maltrattano le povere zolle del manto erboso ed ispirano una nemmeno tanto vaga somiglianza con orchi delle fiabe, salvo poi comportarsi come agnellini di fronte all’arbitro, un ometto di mezza età spesso insignificante se rapportato ai quei colossi. Ma tant’è, la rabbia e l’ardore sono totalmente profusi nell’agonismo che la partita richiede da essere praticamente prosciugati per quanto riguarda qualsiasi fase esterna alla stessa. Insomma se si spillano fino alle ultime energie dal corpo per metterle in campo, ben poche ne restano per lamentele e quanto ne segue. Tanto che salvo le solite baruffe tra gentiluomini i casi di risse sono rarissimi, specie a fine partita dove immagino si instauri un mutuo rispetto nei confronti di chi si era picchiato fino a pochi secondi prima. Bene, da poche settimane sono partiti i mondiali in Nuova Zelanda, storica terra in cui pare questo sport abbia messo radici profonde e sentitissime e si irradia in tutto il mondo grazie alla notorietà degli All Blacks, della loro marea nera e soprattutto della loro haka. Anche i primi incontri visti dal sottoscritto assieme al torneo dell’allora cinque nazioni vedevano per protagonista la nazionale della felce argentata. Chissà se ad avere i mondiali in casa finalmente sfateranno la macumba che li vede incontrastati dominatori del ranking salvo poi scivolare sempre su di una buccia di banana nell’occasione principe. Intanto la fase a gironi è praticamente terminata e gli accoppiamenti per i quarti si sono delineati, purtroppo per noi anche stavolta l’Italia cade ad un gradino dal secondo turno, asfaltata dall’Irlanda dopo aver tenuto benissimo botta per un tempo. Ma il rugby è uno sport crudele, essendo fisico non fa sconti, se finisci la benzina paghi e paghi salato perché gli avversari ti azzannano. Un peccato perché al passaggio del turno ci si poteva credere, però considerazione da appassionato e non esperto come già detto, mi pare che il movimento italiano non riesca a crescere, a fare quell’ultimo gradino che lo porti ad appartenere di fatto al gotha mondiale, perché in realtà mi sembra che è da anni ormai che ne siamo ai piedi. Certo, in questi casi l’ultimo tassello è anche il più difficile, perché è uno sport in cui le gerarchie sono molto ben definite, con poche nazionali dei due emisferi a farla sempre da padrone, in sostanza le squadre del Regno Unito più l’Irlanda e gli ex domini britannici dell’emisfero sud. Negli ultimi anni si è aggiunta l’Argentina, ma la squadra di quest’anno, protagonista finora del più bel match della manifestazione che io abbia visto, la sfida alla morte contro gli scozzesi, è un po’ datata e ricambi all’altezza bisogna vedere se ce ne saranno, perché il problema è proprio quello, sfruttare l’exploit di una generazione per far crescere il movimento alle spalle e preparare un serbatoio di giovani talenti adeguato alle nuove ambizioni. Stesso problema che mi sembra affligga anche l’Italia, molto determinata in quanto a naturalizzazioni ma carente nel settore giovanile, per motivi vari che sicuramente esulano dal paragone con sport molto più praticati. Tornando ai mondiali è proprio il nostro girone a cambiare le carte in tavola, con l’Irlanda che battendo i più quotati Wallabies si aggiudica il raggruppamento e produce abbinamenti singolari nel tabellone: da un lato tutte europee,  dall’altro tutto il sud del mondo, così da sapere in anticipo che avremo uno scontro di stili in finale. E se magari Irlanda-Galles non solleticherà i palati più fini, che dire di Inghilterra-Francia o Sud Africa-Australia? I Tutti Neri che si scontreranno contro i Pumas argentini hanno il mio appoggio per la conquista del trofeo finale, perché nonostante siano unanimemente considerati la squadra più forte la particolarità di bucare con puntualità raggelante ogni mondiale ne fa dei perdentoni di successo, e per i secondi, per quelli tristi nelle foto di giubilo io ho sempre avuto un debole. Infine una parola per i commentatori Sky, tutti mossi da una sincera passione per questo sport, molto chiaccheroni ma poche volte a vanvera, sempre pacati e immersi nel clima rugbistico anche nei toni tenuti. Sopra a tutti ovviamente Vittorio Munari, un nome una leggenda, che tranne quando commenta l’Italia e si lascia andare a sanguigni campanilismi ed a un silenzio plumbeo quando i nostri soccombono è la persona che più mi ha insegnato, ed in buona parte anche avvicinato, a questo sport. La sua disamina tecnica è sempre precisa, essenziale, chiara anche a un caprone come me, è bravo ad illustrare le regole e le situazioni di gioco e la miglior interpretazione che ne viene data da arbitro e giocatori, sa spiegare senza essere pedante o noioso anche per un esperto, suppongo, legge bene i momenti della partita. Il tutto condito da una smisurata simpatia fatta di battute fulminanti, spassosi aneddoti, sapiente uso di varie tonalità di voce ed espressioni colorite che mai sconfinano nel volgare. Un totem.

 
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Pubblicato da su 7 ottobre 2011 in Rugby

 

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