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..e vi dico quali sono le mie idee

Veniamo al nocciolo della questione: il mio obiettivo è allestire una squadra che diventi la più forte d’Europa. Siccome negli ultimi anni la squadra migliore nel continente ha dimostrato esserlo il Barcellona (negli ultimi quattro anni, cioè il regno Messi, 2 titoli e 2 semifinali cui andrebbe aggiunta la vittoria del 2006), devo puntare a costruire una formazione che gli sia superiore, o per dirla meglio che riesca a giocarsela sempre contro un gruppo che a tratti pare davvero ingiocabile. Circola la voce che i catalani al completo siano imbattibili. Lasciate che vi dica una cosa, per me di squadre imbattibili negli sport non ne sono mai esistite, perché nessun uomo in realtà è invincibile. Possono giocare ad una qualità ed un’intensità talmente elevata da risultare impraticabili, ma non dura mai per sempre. Potete citarmi il Dream Team americano di basket di Barcellona ’92, l’unico vero ed autentico, ma anche quello squadrone ha dimostrato il suo strapotere solo per un breve lasso di tempo, una manifestazione limitata. Avrebbero mantenuto l’imbattibilità per un anno intero? Inoltre mettetegli di fronte la Jugoslavia ancora unita invece della sola costola croata e scommettete che di grattacapi ne avrebbero avuti ben maggiori. In una serie di dieci sfide contro gli slavi insomma, sono convinto che anche gli statunitensi non le avrebbero portate a casa tutte quante. Ma torniamo al Barça: il loro calcio è a tratti spumeggiante, altre volte soporifero, perché come un abile tennista controllano il gioco ed il ritmo dello stesso, rallentando e cercando le accelerazioni a piacimento. Se si lasciano giocare insomma ci si mette in balia della loro qualità di palleggio e visione di gioco. Offensivamente hanno un grande meccanismo, con i due terzini che salgono a spingere, lasciando i due centrali e l’uomo arretrato a centrocampo come ultima roccaforte, mentre Messi si muove a piacimento sul fronte d’attacco simulando di essere la boa del tridente. Gli altri due esterni puntano l’uomo se c’è contropiede e cercano i corridoi a difesa schierata, mentre i due centrocampisti sono quelli che organizzano tutto il gioco e a turno si inseriscono centralmente. La chiave dunque sono loro, Xavi ed Iniesta, che giocano spessissimo di prima e sono mortiferi sia palla al piede che senza. Senza contare che han sempre da giocare la carta pulce argentina, uno che quando conta tende a farsi sentire. Una bella gatta da pelare ovviamente, ma non si scopre oggi. In difesa sono molto efficaci nel pressing subito dopo aver perso palla: la mentalità resta aggressiva, non si indietreggia ma al contrario si pressa subito per lasciare poco tempo di ragionare all’avversario tentando di riconquistare subito il pallone; se riesce ad evitare la ragnatela del pressing, bravo lui. Diversa la reale fase difensiva, in cui peraltro capita raramente debbano cimentarsi, ma dove non sono certo impeccabili; si tenga conto che nell’ultimo periodo presentavano Mascherano come difensore centrale in appoggio a Piquè, i due terzini sono attaccabili e la taglia fisica non eccelsa li rende vulnerabili sui calci piazzati. Certo si difende tutti assieme, ma si è visto che se pressati anche i blaugrana possono subire. Il problema resta che con la bravura che hanno nel gestire palla è dura mantenere il ritmo di pressing necessario per tutta la partita, prima o poi tutti hanno una flessione esponendosi alle folate di crema catalana. Ci ha provato il Manchester United in finale, ma è durato quanto un temporale estivo: un quarto d’ora e da aggressore è diventato aggredito. Tanta voglia ma altrettanta corsa a vuoto e la sensazione che dovessero sempre rincorrere, senza avere una reale chance di farcela. Avversario della stagione è stato forse più il Real Madrid, con quattro incontri spalmati nell’arco di un paio di settimane cui andrebbe aggiunta la disfatta merengues nella prima sfida di campionato, la ormai celebre manita. In quell’occasione vennero testati i rapporti di forza, e dopo il secondo goal i castigliani andarono in bambola prendendo un’imbarcata memorabile. Nei restanti quattro episodi il Real ne ha pareggiati due, perso uno e vinto altrettanto, l’unico che assegnava un trofeo in partita secca. Nell’affrontare queste partite però si è snaturato, rinunciando a giocare come ha poi sempre fatto nella Liga ed in Champions con altri avversari. I leitmotiv proposti da Mourinho sono stati sostanzialmente due: barricata difensiva per non concedere spazi di manovra ed inserimento a cui seguiva tentativo di contropiede appena riconquistata palla, detto più volgarmente catenaccio, palla lunga e pedalare che avendo Cristiano Ronaldo in avanti la si può sfangare. In secondo luogo, grande aggressività, tentativo di alzare il livello fisico ad agonistico del match: metto pressione prima della gara, creo un clima di tensione, dico ai miei di non lesinare le botte inducendo così l’arbitro a modificare il metro di giudizio della gara concedendo più rudezza e provo ad intimidirli grazie anche ad una maggiore prestanza fisica. Arma a doppio taglio però, perché rischia di degenerare e se l’arbitro non abbocca giocando sempre al limite esistono grosse probabilità che qualcuno si prenda il rosso, cosa puntualmente avvenuta. Come idea può anche pagare, ma è piuttosto svilente del gioco provare a vincere facendo giocare male l’altro senza però proporre nulla in alternativa: una sorta di palese dichiarazione di inferiorità. Un peccato, perché il Real le armi per giocarsela ha dimostrato anche di averle in potenza: forse servirebbe solo un po’ di qualità e velocità maggiore a centrocampo, dove ci sono distruttori di gioco ma i costruttori non sono fulmini di guerra. Stesso schema lo propose con successo l’Inter di due anni fa, anche se il Barça aveva Ibrahimovic invece di Villa ed incappò in alcune circostanze sfortunate. I nerazzurri però svolsero il loro compito senza sbavature e meritarono il passaggio del turno. L’unica squadra che abbia accettato uno scontro a viso aperto senza uscirne con le ossa rotte è stata l’Arsenal, che negli ottavi ha strappato una vittoria in rimonta in casa 2-1 salvo poi perdere Van Persie e partita al Camp Nou 3-1. Al di là del punteggio il Barça si è rivelato superiore anche all’andata, però i Gunners sono riusciti a creare non pochi grattacapi agli uomini di Guardiola, pressando anche alti i portatori di palla e non rinunciando mai a giocare. Più che sbagliare qualcosa si sono arresi ad una squadra di un gradino più forte tecnicamente e probabilmente anche più matura mentalmente, storicamente un grosso limite dei londinesi. Ecco, io sono convinto che la strada da intraprendere sia questa. Innanzitutto qualità dei giocatori, devono essere tutti capaci di giocare la palla e anche i difensori devono avere un elevato tasso tecnico perché non devono mai andare nel panico. Niente pachidermi, niente giganti, dal punto di vista fisico punto su rapidità e corsa, perché ovviamente la tenuta atletica dev’essere di primissimo livello. La potenza semmai la cerco davanti nelle mie punte, siccome di Messi ce n’è uno e non è replicabile a me piacciono molto gli attaccanti totali alla Drogba, che coniugano tante abilità, padroneggiano ogni colpo e sanno adeguarsi a qualsiasi difesa. Il modulo poco conta secondo me, ha maggiore rilevanza costruire una squadra armonica in entrambe le fasi del gioco. Dovrei setacciare il mercato (e produrmi in casa) alla ricerca di giocatori veloci, dotati di fondo, rapidi nell’esecuzione e negli spazi brevi, completi tecnicamente e magari pure dotati di una certa prestanza fisica, ma soprattutto con la mentalità vincente ed un grande spirito competitivo. Pretenzioso lo so, ma le possibilità ci sono. Diciamo un Chelsea con due punte molto più incisive di quelle viste quest’anno, un centrocampo maggiormente qualitativo ed una difesa più mobile per capirci. In un calcio sempre più fisico, il ritmo e la velocità sono importanti, ma ad una squadra con quelle doti tecniche si deve rispondere con la stessa arma, compensando poi eventuali lacune (perché se loro hanno il miglior centrocampista del mondo tu ti devi accontentare al massimo del secondo) con le abilità atletiche e mentali. La fame di primeggiare non va mai sottovalutata. Gli indizi per la creazione del mio team sono questi, restando consci che siccome battere sempre il Barcellona è impresa ardua o quasi impossibile, il primo obiettivo dev’essere riuscire a giocarci contro riservandosi il 50% di possibilità di successo ogni singola volta. A parità di valore nello sport sono le componenti mentali che decidono i risultati, e sono convinto che con pazienza seguendo questa strada arriverei anche a spuntarla.

 
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Pubblicato da su 30 giugno 2011 in Calcio

 

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Barçelona Style

Sarà il profumo del mare, le proprietà della acque mediterranee che aliteranno una brezza speciale sulla città? Un segreto deve pur esserci per Barcellona che ultimamente sta respirando successi sportivi in serie, successi infilati senza soluzione di continuità nelle più svariate discipline. Il Barçelona Club si prefigura di essere una polisportiva, d’accordo, ma evidentemente il virus della vittoria è contagioso e si espande inarrestabile come l’olio versato sulla tavola. Siccome va tanto di moda parlare di triplete e tituli, chiaro sintomo di come i media nostrani siano dotati di personalità così effimera da dover sempre rubacchiare banali espressioni da altre lingue perché fa figo o per mascherare carenze nella lingua nostrana, in Spagna dove suddette espressioni sono di casa appartenendo all’idioma del posto una squadra che ha realizzato una tripletta trasversale c’è, e ovvio nessun mistero sul nome è quella catalana. Il Barça vanta rappresentative in numerosi sport, sia a livello professionistico che amatoriale. Diciamo che dovendo citare un podio quelle dove viene investita maggiormente la pecunia sono ovviamente calcio, poi basket e pallamano. Bene, quest’anno tutti e tre i settori hanno conquistato il rispettivo titolo nazionale, e non fosse stato per il geniaccio di Obradovic e della sua banda forse staremmo parlando di incredibile double visto che i team di soccer e handball hanno bucato le porte avversarie fino a innalzarsi sul gradino più alto d’Europa. Ricapitolando: i pallonari portano a casa Liga e Champions League, cui vanno addizionati in bacheca gli stessi trofei sponda pallamano e la Liga ACB cestistica, arrivata fresca fresca dopo aver superato 3-0 in finale la sorpresa della stagione, Bilbao. Come già detto la corsa di Navarro & C. in Eurolega si è arenata nei quarti di finale per mano del Panathinaikos futuro campione, altrimenti avremmo assistito ad una razzia probabilmente unica nella storia dello sport. A pensarci bene si è trattato di una tempistica leggermente sfasata, essendo il Barça campione uscente di Eurolega, nell’anno in cui invece le altre due compagini non erano riuscite ad affondare la zampata decisiva. I fatti però parlano chiaro, siamo di fronte ad una dinastia singolare, di club e non nella singola disciplina: un risultato onestamente straordinario a cui non è dato sapere quando verrà posto termine. La squadra guidata da Guardiola infatti sembra avviata verso un decennio da protagonista, con tutti gli uomini chiave ancora giovani fatta eccezione per Xavi, ma già si sta pensando a Fabregas o chi per lui per rimpiazzarlo quando mostrerà i primi segnali di declino. I titoli non sono ovviamente assicurati, ma avere l’opportunità di contenderli ogni anno non credo sia in discussione. Forse la vera incognita è legata alla permanenza di Guardiola: è lui l’artefice del gioco spumeggiante o il merito va dato maggiormente agli interpreti? Senza di lui riusciranno ad esprimere lo stesso calcio, e lui senza il Barça dimostrerà la stessa qualità proposta in questi tre anni? Solo se e quando il suo destino si separerà da quello blaugrana avremo la controprova che ci racconterà molte cose al riguardo. Per quanto riguarda le altre due discipline, la curiosità maggiore sta nell’omonimia tra i due coach: coincidenza o meno, chiamarsi Xavi Pascual porta bene (e anche provenire da Barcellona, dettaglio molto meno casuale), anche se quello seduto sulla panchina del basket con la corazzata che gli è stata recapitata tra le mani forse potrebbe mostrare un gioco quantomeno più armonioso, se lo spettacolo non è proprio nelle sue vene. Anche nella recente finale contro i Baschi il punteggio è stato molto basso, la serie ultra fisica e zeppa di contatti, la gestione della squadra e dei cambi modestissimo parere un po’ incerta e due partite risolte grazie solamente al talento individuale di stelle quali Navarro e Lorbek, che poi in effetti sono lì esattamente per fare quello, la differenza quando conta, ma con tutto il talento accumulato nei 12 uomini a disposizione forse nemmeno ce ne sarebbe stato bisogno di arrivare col fiatone. Nonostante tutto comunque quinta finale nell’ultimo lustro, quisquilie, e seconda vittoria dopo lo smacco subito l’anno passato dagli altri Baschi di Vitoria. L’anno venturo sebbene Rubio abbia firmato per trasferirsi oltreoceano a Minneapolis, scommesse sul fatto che verrà allestito nuovamente uno squadrone nemmeno sono accettate, e già girano insistenti voci sull’arrivo dell’americano Eidson che ha disputato l’ultimo europeo col Maccabi. Di pallamano so molto meno, tranne che in entrambe le finali i catalani hanno spento le velleità dei rivali del Ciudad Real, squadra condannata alla seconda piazza quest’anno, e nel cammino verso la finale di Champions League in terra tedesca hanno avuto occasione di vendicarsi dei campioni uscenti del Kiel, eliminandoli nei quarti di finale. Avere una sorta di saracinesca come il bosniaco Saric in porta e il cannoniere danese Noddesbo davanti alla porta non guasta comunque. Il club è ormai diventato una potenza economica di primissimo ordine, e la ferrea volontà di farsi portabandiera degli ideali catalani in giro per il mondo non può che esercitare un costante stimolo per eccellere in ogni competizione che affrontano, dotandosi dei migliori giocatori possibili e coltivandoli in casa quando possibile: un progetto contro cui chiunque voglia vincere in Europa dovrà fare i conti nei prossimi anni.

 
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Pubblicato da su 15 giugno 2011 in Sport & Cultura

 

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ESPN – The Two Escobar

Andres e Pablo. Nomi diversi, il cognome come denominatore comune. Due infanzie simili ed impregnate di povertà, percorsi di vita che invece si sviluppano agli antipodi per poi intrecciarsi nuovamente nel tragico finale. Intrecci, questa è la parola chiave per raccontare la storia della Colombia, una storia che tratta della società colombiana mischiando politica, calcio, violenza, droga, miseria, tutto amalgamato in un unico grande calderone, niente se ne estranea, dei famosi sei gradi di separazione qui ne servono molti meno. Se anche solo vagamente vi ricordate i mondiali di calcio del ’94, quelli americani, delle differite, del caldo impossibile, del rigore di Baggio sparato in piccionaia, certo non potrete non associarli ad un avvenimento che con lo sport non aveva proprio alcuna attinenza, ovvero l’omicidio di Andres Escobar, l’autore dell’autogol che contribuì all’eliminazione della Colombia al primo turno, quando invece i sudamericani si presentavano all’appuntamento con grandi favori del pronostico, avendo ben figurato nella precedente edizione della Copa America e nelle qualificazioni ai mondiali, condite dal grande assolo di battere gli argentini a casa loro, al Monumental, per 5-0, prima ed unica volta nella storia. Di quella squadra Andres era il capitano, appena 27enne e con un’offerta del Milan già sul piatto appena terminata la kermesse statunitense, ma l’intera generazione era di quelle che passano una volta ogni tanto, con Valderrama, Tino Asprilla, Rincon, “il treno” Valencia, lo spericolato Higuita. Cosa avevano in comune tutti questi giocatori? Venivano dalla strada, dai campi di periferia impolverati, presenti in ogni quartiere delle città colombiane, anche i più poveri. Il merito? In molti casi, dei narcotrafficanti, Pablo in primis essendo il capo assoluto, uno degli uomini più ricchi del mondo e appassionato di calcio, che per crearsi un consenso popolare, specie nelle classi più disagiate il cui legame col governo era flebile, diventavano dei veri mecenate, costruendo interi quartieri popolari, dando lavoro, tenendo lontano molti ragazzini dai vizi grazie all’organizzazione di tornei di calcio in cui si facevano carico di tutto, dalla manutenzione del campo alle divise. Il calcio Colombiano visse la sua apoteosi proprio sul finire degli anni ’80, quando i signori della droga iniziarono a comprarsi le squadre per riciclare denaro: in questo modo elevarono anche il livello qualitativo del gioco, acquistando giocatori dall’estero per divertirsi col loro giocattolo. La squadra di Pablo, in cui giocava anche Andres, vinse addirittura la Copa Libertadores, prima assoluta per la nazione. Da questi indizi già si percepisce la connivenza tra criminalità e calcio: da qui nascono le amicizie, i favori, i legami, gli stessi che porteranno il portiere Higuita a finire in carcere per aver frequentato Pablo durante la sua detenzione. I fratelli Zimbalist narrano parallelamente anche la storia della Colombia di quegli anni, il benessere portato dal traffico di droga in Europa e Stati Uniti, la battaglia che questi ultimi condussero in accordo col governo colombiano contro il cartello di Medellin e l’autentica guerra che se ne scatenò, Pablo da una parte e lo stato dall’altra, una guerra sanguinosa fatta di attentati, sparatorie, bombardamenti, omicidi politici come quello del ministro Lara Bonilla che aveva fatto espellere Pablo dal parlamento. Una guerra che Escobar si illuse di aver vinto quando ottenne l’abolizione dell’estradizione negli Stati Uniti, non accorgendosi che i nemici più temibili erano in casa, i PEPEs di Carlos Castaño: quando sei al top, devi sempre pensare che ci siano rivali pronti a buttarti giù dalla torre. Lo fecero anche con Pablo, braccando lui ed i suoi familiari fino al 2 dicembre del ’93, giorno della sua morte. Poteva sembrare un giorno di sollievo per la Colombia, in realtà mancando un capo che tutto controllava la delinquenza dilagò, rapine, sequestri, omicidi ebbero un’impennata vertiginosa, portando la Colombia al primo posto per morti violente al mondo. Questo clima contagiò anche i giocatori che partirono per i mondiali: chi si vide il figlio rapito, chi un fratello ucciso. Attorno alla nazionale gravitavano ingenti scommesse: dopo la prima sconfitta contro la Romania, tutti ricevettero minacce di morte, a Barrabas Gomez fu impedito di giocare. Non esattamente il clima ideale, e contro gli Stati Uniti se ne ebbe la prova. Tornati a casa, l’epilogo peggiore, Andres ucciso probabilmente per un alterco con degli spacciatori, tanti suoi compagni che smettono di giocare. Una spirale che oggi pian piano sembra essere superata.

 
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Pubblicato da su 13 Maggio 2011 in ESPN 30 on 30

 

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Barcellona – Real Madrid sfida eterna

Sono le due regine di Spagna, quelle che addirittura provano ad eclissare il prestigio di Isabella, esercitano il loro incontrastato potere da tempo ormai immemore, lasciando che ogni tanto qualche briciola cada dalla tavola agli affamati che ambirebbero alla spartizione della pagnotta, ma loro tendono a spazzolare via tutto quanto alternando le correnti favorevoli. Proprio in questi giorni si troveranno nuovamente di fronte, sul rettangolo verde sapientemente annaffiato prima dell’inizio, per un’appassionante semifinale europea che assegna un posto alla finale della fu Coppa dei Campioni, nome retrogrado ma in cuor nostro sempre più affascinante del molto global Champions League. Fascino e pressione si aggiungono se lo scontro che si profila arriva dopo altre due partite svoltesi a brevissima distanza da queste, una valevole per l’assegnazione della Coppa del Re e l’altra in sostanza per decidere se la Liga fosse discorso chiuso o meno, cui ha fatto da prologo il primo scontro in campionato, terminato con un’umiliante manita, 5 insaccati a zero, per i catalani. Di rivalità sanguigne, pure, accesissime nel mondo sportivo ne sono sempre esistite, un po’ come quella tra Don Camillo e Peppone; il tempo ne ha cancellate alcune, ammorbidite o appassite altre, facendo sì che siano rimaste in poche a poter assurgere a momento quasi leggendario, da tramandare ai posteri col più classico de “io c’ero”. Restando in ambito calcistico trovarsi a “La Bombonera” di Buenos Aires per assistere al superclasico, il derby tra gli Xeneizes del Boca Juniors e i Milionarios del River Plate, è giudicata un’esperienza impagabile, da brividi prolungati, una di quelle cose da scribacchiare sulla bucket list, la lista di cose da provare almeno una volta nella vita. Il derby iberico genera le stesse aspettative, uguali emozioni? Di pancia diremmo di no, anche se resta pur sempre un grande appuntamento. Certo gli anni ed il degeneramento del sistema calcio in un business, una macchina produci soldi e spettacolo in alcuni casi quasi forzato hanno appannato e non poco le sane rivalità passate: nel caso in questione stiamo parlando dei due club più ricchi del mondo, entrambi facenti parte del G14, l’associazione dei team europei più danarosi e potenti che sempre lavora per spartirsi le fette più succulente della torta introiti. Logico quindi che per la maggior parte del tempo i due club lavorino assieme per l’ottenimento dei medesimi interessi, e fondamentalmente riconoscono la necessità dell’altro, volendo alimentare la rivalità quasi appositamente. In questo senso un po’ viene a perdersi la componente viscerale dalla sfida, quella che a ben vedere la rendeva così speciale. Già, perché Barcellona – Real Madrid non è una sfida che rientra nell’ordinario, ma qualcosa che esula dai meri confini sportivi per sconfinare in significati politici, culturali, storici. Innanzitutto, non stiamo parlando esclusivamente di squadre calcistiche: entrambe sono delle polisportive che riuniscono sotto di sé svariate discipline, in special modo quelli che si affacciano sul mare. Oltre alla squadra che milita al Camp Nou infatti il Barça vanta anche squadre di basket, pallamano e hockey su pista, senza contare tutte le sezioni maschili e femminili non professionistiche, un’autentica valanga che abbraccia un considerevole numero di sport. Discorso differente per il Real Madrid che invece schiera solamente l’alter ego cestistico alle merengues, ma in passato contava diverse sezioni ora scomparse ma ai tempi vincenti, come la pallavolo, la pallamano o il baseball. Inutile asserire che anche in altri ambiti le formazioni primeggiano sia in patria che in Europa: nel basket il Barça è attualmente in testa alla classifica e ha sfiorato l’ingresso alle final four di eurolega dove è campione uscente; obiettivo centrato invece dal Real che insegue in campionato aspettando i playoffs. Se si scorrono i risultati delle altre discipline comunque è imbarazzante la continuità di risultati e piazzamenti ad altissimo livello che queste squadre raggiungono: ogni volta che competono partono per vincere. In secondo luogo, la rivalità sul campo è solo la trasposizione di una dicotomia molto più vasta e significativa che prima di tutto esiste tra le due città simbolo di due comunità fondanti dello stato spagnolo, quelle Castigliana e Catalana. Il Real rappresenta la squadra della capitale, degli snob, è associata alla figura del potere ed in effetti l’ombra del generalissimo aleggiava sulla squadra durante gli anni della dittatura franchista, tanto che da più di uno spiffero si vocifera come i blancos fossero avvantaggiati anche per sostenere una certa unità nazionale (senza dimenticarsi però che prima la guerra civile mietette vittime in entrambi i club). Non è un mistero che Alfredo Di Stefano, uno dei più grandi giocatori del Real, si accasò a Madrid dopo che fu conteso guarda caso dal Barcellona ma un “decreto reale” di Franco stabilì che l’argentino avrebbe giocato alternativamente una stagione per i due team. I Blaugrana si rifiutarono lasciandolo così alla squadra della capitale, anche sa seppero rifarsi anni dopo grazie alla firma di Cruijff che dichiarerà pubblicamente di aver preferito il Barça proprio per non voler militare in una squadra associata al franchismo. Altro episodio controverso fu una gara di Coppa del Re degli anni ’40, dove si insinua vennero effettuate pressioni sugli azulgrana per perdere dopo che si erano imposti per 3-0 all’andata. I catalani si ritennero così offesi che non solo persero, ma lo fecero in grande stile, 11-1, ricevendo conseguente multa e sospensione. Il Barcellona invece ha connotati culturali ancora più marcati, rappresentando di fatto la Catalogna a livello internazionale. Il club si è sempre speso attivamente per la difesa dei valori catalani, in un certo senso contrapponendoli al potere centrale si capisce, in primo luogo quello della lingua; durante il franchismo infatti gli idiomi regionali furono aboliti a favore del Castigliano, dichiarato unica lingua ufficialmente riconosciuta nel tentativo di rafforzare l’unità statale ed affievolire le radici culturali regionali. Ovviamente tale soluzione generò la reazione inversa, ed il club fu uno dei pochi luoghi dove la lingua locale fu mantenuta rafforzandone dunque l’identità, anche perché all’epoca la squadra era interamente composta da giocatori del posto (a differenza del Real che invece fu la prima a trasformarsi in una multinazionale e ad allargare i propri orizzonti al di fuori della Spagna anche dal punto di vista delle ambizioni), nonostante fosse stata creata da un amalgama di svizzeri ed inglesi. Negli anni il ruolo della società è diventato sempre più preponderante, sempre più rappresentativo tanto che il Barça ha sottoscritto diverse volte manifesti che appoggiavano le rivendicazioni autonomiste della Catalogna, oltre a dare il beneplacito alla creazione di una rappresentativa catalana in ambito calcistico. Azione folcloristica certo ma significativa. Questo suo prodigarsi nel coprire più discipline possibili evidenzia proprio come il club tenda a voler farsi bandiera dell’orgoglio regionale in campo sportivo. Come abbiamo detto però negli ultimi anni questo alone romantico si sente sempre meno, anche perché le società, entrambe ad azionariato popolare, sono diventate delle superpotenze calcistiche che oltre ai trofei ed il danaro degli sponsor e delle televisioni si spartiscono anche i migliori giocatori mondiali a colpi di (svariati) milioni di euro, il che certo toglie un po’ di poesia. Resta comunque lo scontro tra due diverse mentalità, sospinte da un obiettivo comune, vincere e divertire il pubblico, ma conseguito puntando su filosofie differenti: le stelle al servizio del collettivo, del gioco armonico di squadra del Barcellona, e l’ammasso di talento puro con la squadra che viene caricata sulle spalle del singolo e delle sue giocate nel caso del Real. Per scoprire chi vincerà il prossimo capitolo della saga basta restare collegati un paio di settimane.

 
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Pubblicato da su 26 aprile 2011 in Calcio

 

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Calcio: I giovani in Italia

Le certezze nello sport sono labili, basta che la traiettoria di un pallone cambi di pochi millimetri a causa di un refolo di vento o di una goccia di sudore per determinare commenti trionfalistici o catastrofistici. Le certezze nel giornalismo insomma, lo sono ancora di più, come una bandiera esposta a Trieste all’avvicinarsi della bora. L’Inter è campione europeo in carica ed ha ancora possibilità di difendere il titolo, vero, ma in generale la condizione del calcio italiano non è idilliaca, con un campionato dai contenuti tecnici modesti, difficoltà a raccogliere soddisfazioni continentali da qualche anno come movimento, se si escludono singoli exploit, altri stati che un tempo sembravano pulcini e ora sembrano crescere minacciosi, i grandi nomi che sono riluttanti a venire e la penuria di giovani italiani. Già, i giovani, chiodo su cui si batte sempre con grande insistenza, anche se poi a ben vedere sono tendenzialmente le squadre più esperte a portarsi via la torta, e questo nella stragrande maggioranza degli sport di squadra. Nell’Italia calcistica i temi dibattuti sono essenzialmente due: si preferisce comprare all’estero e così facendo si soffocano i vivai, da cui non escono talenti, il che si riflette sia nei club che a livello di nazionale. Mancanza di programmazione, la sentenza, che presa come tale è anche condivisibile. Provo però a fare un paio di ragionamenti a monte. Primo, la pressione. Secondo, il modo di giocare, che riconduce ancora alla causa prima. In Italia bisogna vincere, preferibilmente sempre, ad ogni costo e soprattutto, in fretta. Non c’è tempo per programmare un ciclo, per porsi degli obiettivi graduali, per lasciar maturare un progetto. Non c’è tempo nemmeno per assorbire eventuali errori, abbastanza ipotizzabili quando si parla di costruire una squadra vincente. Assemblare i pezzi giusti prima e dare loro la corretta amalgama poi non è un processo matematico o semplice, si può incorrere in errori di valutazione. Se le fondamenta sono solide il colpo può essere incassato e considerato preziosa esperienza in futuro, in caso contrario il puzzle verrà sempre smontato e rimontato senza giungere a conclusioni pregevoli se non per puro caso. In soldoni questo modo di ragionare si traduce in una visione molto frammentaria dei piani delle squadre, che difficilmente stendono dei progetti a medio o lungo termine: solitamente si ragiona di stagione in stagione, e questo ovviamente non può che dare risultati schizofrenici e poco attendibili. Vedere le annate a compartimenti stagni porta diversi corollari a catena: maggiore difficoltà nell’impostare un modulo di gioco ed una tattica offensiva a cui dare continuità, maggiore difficoltà nell’inserimento di nuovi giocatori, in definitiva maggiore difficoltà nel fornire alla squadra un’identità precisa. Ovvio che in un sistema come questo ci sia meno spazio per i giovani e si faccia invece maggior affidamento a giocatori già pronti, cui si debba insegnare poco, che non debbano essere coltivati, lasciati sbagliare e crescere. O tutto o niente. Infili una striscia di tre buone partite e sei il titolare in quel ruolo per i prossimi dieci anni, ne sbagli tre e sei già bollato come relitto, hai fallito. Un sistema del genere ti stritola, manca la pazienza, manca la tranquillità. Si comprano all’estero i ragazzini perché costano meno come cartellino e stipendio, lamentandosi di non coltivare a sufficienza i vivai. Quando un ragazzo esce dalla primavera però non gli si dà tempo, non lo si gestisce con attenzione e spesso si finisce col bruciarlo ancora prima che abbia iniziato. Per uno che resta nella prima squadra dieci iniziano un pellegrinaggio lungo tutto lo stivale, un anno qua, un anno là e magari se gli va bene a quasi 27 anni sono delle belle promesse in procinto di affermarsi come Matri o Pazzini. Ormai anche il mercato è diventato una trottola più in mano ai procuratori che ai presidenti : parlare di investimento sui giovani ha meno significato quando un roster può essere rivoluzionato nel giro di un paio di stagioni se non nella singola, quando si compra un ragazzo ventenne per poi rivenderlo soltanto due anni dopo. Le squadre non hanno coraggio nel lanciare i giovani calciatori, anche questa tesi è sostenibile. Poi vai a vedere il torneo di Viareggio e non trovi un solo ragazzo che provi un dribbling, una giocata di fantasia, quasi vengano ingabbiati già da ragazzini, prodotti in serie come in una catena di montaggio. Vincere ad ogni costo, magari buggerando arbitro ed avversario che c’è più gusto, ma soprattutto prima non prenderle. Non è un caso che la qualità di gioco offerta è in netto calo, per una parte atletica in continuo miglioramento ce n’è una tecnica in costante deterioramento. Certo un talento vero può sempre uscire, in qualsiasi momento, ma sarebbe un caso isolato, non figlio del movimento, e questo credo sia l’aspetto su cui riflettere.

 
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Pubblicato da su 21 marzo 2011 in Calcio

 

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Sport e Arbitri

Criticare che è preposto a giudicare, chi ha il potere di mettere in pratica le regole del giochino, qualsiasi esso sia, è esercizio piuttosto semplice ed in certi casi anche naturale specie per chi di quel giochino è l’attore principale. Nello sport la categoria arbitrale alcune volte è vituperata e molte altre non è certamente vista di buon occhio. Ma è davvero sempre così? E soprattutto, la situazione è omogenea in tutte le discipline? Innanzitutto sembra corretto operare una prima distinzione tra sport di squadra ed individuali, per due ragioni: nei primi le scelte arbitrali sono più complesse perché la scena che devono giudicare è influenzata da dinamiche e tensioni maggiori ed in larga parte dei casi le loro decisioni possono risultare più incisive. In secondo luogo sono chiamati a gestire dinamiche differenti, perché trovarsi a gestire un gruppo di persone non è certo paragonabile a dover arbitrare il confronto tra due soli atleti o in alcuni caso anche del singolo (dove però sarebbe meglio parlare di giudici e non arbitri e la sfumatura non è di poco conto). Consideriamo allora gli sport di squadra, senza trattarli nella loro totalità ma prendendo spunto da alcuni esempi circostanziati. Dispute tra arbitri e giocatori o panchine possono essere documentate in ogni sport e con i più svariati livelli di intensità, ma quello che conta è più una linea di comportamento generale, e sotto questo punto di vista risaltano in modo piuttosto evidente le differenze che intercorrono tra il calcio e gli altri sport. In negativo s’intende. Nel pallone è come se ci fossero maggiori concessioni o meglio maggior permissivismo perché per concedere qualcosa una certa autorità bisognerebbe anche detenerla. Pare invece che si verifichi il detto secondo cui uno l’autorità ce l’ha finché non è costretto ad esercitarla, dunque meglio dosarne con parsimonia l’uso.

giocatori juventini a "colloquio" con l'arbitro

Il calcio, parere mio, in diverse situazioni vive di un anarchismo probabilmente diffuso o quanto meno tollerato dalle alte sfere, che viene considerato l’alibi perfetto per non pulire la stanza dal marciume ma semplicemente spazzarlo sotto al tappeto. Certi comportamenti che si vedono tra panchine, giocatori in campo e molti degli stessi direttori di gara sono casi se non unici quantomeno rarefatti nel panorama sportivo. Questo anche perché altre discipline sono codificate in modo specifico senza lasciar falle nel sistema, e laddove se ne ravvedano sono capaci a rinnovarsi adattando le regole, migliorandole quando si capisce che non funzionano o possono essere mal interpretate. Soprattutto, nel caso in cui a decidere sia la discrezionalità e la soggettività dell’arbitro, c’è maggiore rispetto per la sua interpretazione. Una questione di atteggiamenti, di valori sportivi  inculcati ed appresi alla base, in sostanza di modus vivendi. Insomma una questione di cultura sportiva, un sottile modo di comportarsi che in realtà affonda le sue radici non solo nello sport ma anche nella società che lo circonda, riflettendone la composizione, le percezioni, i valori. Molto spesso si tratta di un semplice fatto di accettazione di un giudizio, anche quando ci si trova in disaccordo, accettazione che non implica insulti, visi paonazzi, accerchiamenti dell’arbitro stile battuta venatoria alla volpe, sollevamenti popolari, lamentele e scuse pronte, ma semplicemente tabula rasa, ritrovamento della concentrazione e ripresa del gioco, magari traendo motivazioni positive dal fatto. La perdita di lucidità anche a fronte di ingiustizie sportive subite è forse la testimonianza più lampante da parte di un’atleta o di una squadra della mancanza del tassello necessario per essere considerati vincenti o comunque di saper mantenere il controllo sotto pressione, nelle situazioni infuocate, che spesso è la differenza tra chi vince e chi perde. Da aggiungere che se si butta un’occhiata oltreoceano, nelle varie leghe americane, le alzate di cresta vengono prese anche molto più seriamente da chi comanda e conseguentemente trattate. Chi sgarra paga e salato, sia in termini sportivi che pecuniari, e si sa quando si va ad incidere sul portafogli tutti diventano più recettivi, anche se sono milionari. Nella NBA ogni fallo tecnico è accompagnato da una multa ed al sedicesimo scatta la squalifica, il che non si traduce solamente nella perdita di una gara, ma anche del relativo compenso. In soldoni lo stipendio di ogni atleta viene idealmente diviso per il numero di partite della stagione regolare,82 , e per ognuna di esse che il giocatore è costretto a saltare per motivi disciplinari (ultimo caso quello di OJ Mayo di Memphis sospeso dieci partite per uso di sostanze proibite pari a 405 mila dollari andati in fumo) verrà detratta la somma corrispondente dal suo assegno di fine mese. Nel caso dell’anno passato che riguardò Arenas, per esempio si parla non più di migliaia ma milioni di dollari persi dall’ex Agent 0. Il che fa riflettere. In primo luogo l’atleta che se è sveglio mediterà e se intelligente non ripeterà. Ma fa ancor più riflettere come le società non si sognino minimamente di presentare ricorso, come avviene invece in posti di nostra e vostra conoscenza, a volte pure condito da bieca e ripugnante arroganza. Sempre per la stessa politica anni fa Jason Kidd si vide affibbiare 20.000 pezzetti verdi di multa semplicemente per aver additato la terna arbitrale come “topolini ciechi”. Vero, le leghe americane hanno un commissioner che agisce da padre padrone, ma lo fa su mandato dei proprietari delle franchigie quindi la sua autorità è indiscussa. Partendo da questi presupposti è ovvio come anche gli uomini in grigio, propaggine diretta sul campo dell’autorità centrale godano di maggior credito e rispetto, un rispetto che viene guadagnato anche e soprattutto grazie alla preparazione ed al modo in cui molti di loro si pongono nei confronti di giocatori ed allenatori. Arbitri con cui si può dialogare, che danno spiegazioni tecniche delle loro decisioni godono sicuramente di una stima ed un credibilità maggiori. Ognuno insomma è parte inserita di un meccanismo di cui conosce ruoli e regole e le rispetta. Ovviamente non è una macchina oliata perfettamente, ma i problemi o chi dissente sono l’eccezione e non la consuetudine. Si tenga che dissentire non vuole essere considerato atto di lesa maestà anzi è normale e se fatto nei giusti modi può anche rivelarsi costruttivo per situazioni future, ma quei modi giusti sono la chiave della disputa. La gestione dell’arbitro nel rugby, sport a lungo celebrato per il suo alto grado di correttezza e sportività, potrebbe essere d’esempio pur tutti. Il direttore di gara ha controllo assoluto del match, spiega le sue decisioni dal punto di vista tecnico e se vuole effettuare richiami o avvertimenti ai giocatori li richiama personalmente e convoca i capitani delle squadre per la ramanzina. Ovvio che nonostante l’alto tasso di fisicità e dicendolo senza usare giri di parole pure di gran legnate può contare sulla collaborazione delle squadre che incanalano la cattiveria agonistica nel gioco.

..stessa cosa sul ghiaccio

Stesso discorso può essere applicato all’hockey, dove i contatti si sprecano, pure quelli molto duri e volano con regolarità le scazzottate, che paradossalmente sono anche state regolamentate ed approvate: chi decide di intraprenderle si sfoga, sa che pagherà ed il discorso si chiude lì (avvengono casi di giocatori che si rompono la mano in seguito ad una rissa, delle vere volpi). Ma anche sul ghiaccio esiste un certo codice comportamentale che i giocatori tendono a rispettare, prima di tutto  tra loro e poi nei confronti degli ufficiali di gara. Le lamentele che siano più lunghe di cinque parole sono sporadiche e per eventuali proteste o spiegazioni ufficiali l’unico delegato è il capitano o i suoi vice qualora fosse in panchina. Per quanto riguarda gli allenatori la maggior parte di loro non si discosta tanto dalla reincarnazione della sfinge a braccia conserte. Chi siede in panchina nel basket diversamente si lascia spesso andare ad invettive più o meno moderate, ma è anche vero che i migliori sanno recitare bene in questi sfoghi, che vengono quasi programmati a comando in determinati momenti della partita, quando si vuole lanciare un messaggio alla propria squadra o si pensa di alzar la voce fiduciosi di installare il dubbio nel direttore di gara, che potrebbe rivelarsi un vantaggio nel prosieguo della gara. Il discorso è molto più particolareggiato e dettagliato insomma, va forse valutato più nei casi soggettivi che nelle tendenze generali. Però queste esistono, e qualcosa lo stanno comunque a dimostrare. Ogni sport è un mondo a sé, con le sue regole, i suoi usi, costumi e tolleranze, come è vero che lo sono anche gli stati, dunque le sfaccettature possono essere molteplici. Tendenzialmente è più facile attendersi comportamenti poco ortodossi in Grecia o in Italia piuttosto che in Danimarca o Canada, ma anche qui sarebbe troppo semplice scadere nel luogo comune. Non voglio giudicare né accusare, solo esprimere delle opinioni basate su quello che è il mio modo di vedere lo sport, il quale è ovviamente più vicino alle seconde realtà citate piuttosto che alle prime.

 
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Pubblicato da su 13 marzo 2011 in Sport & Cultura

 

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