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ESPN – Jordan Rides the Bus

Di Michael Jordan giocatore di basket si conoscono persino le virgole, i sussurri, i respiri espressi in tanti anni di carriera. La storia di MJ è particolare non solo perché si tratta di uno degli sportivi più grandi di sempre, se metterlo o meno sul podio scegliete voi, ma anche perché non ha avuto una sola vita cestistica, bensì tre. Jordan infatti si è ritirato tre volte dal basket giocato, ed è tornato in due circostanze. Oggi, a 48 anni, ci stupiremmo di un ennesimo ritorno in canotta ad allacciarsi le scarpe, ma con uno spirito competitivo del genere, mai porsi limiti. Il documentario tratta del suo primo ritiro, nel 1993 dopo la conquista del terzo titolo consecutivo in giugno contro i Suns di Barkley. Jordan era davvero all’apice della carriera, del successo, della notorietà, aveva vinto le Olimpiadi l’estate precedente, ma in agosto la tragedia: il padre, cui era legatissimo, viene ucciso al ciglio della strada in North Carolina da due malviventi mentre si era fermato per riposare. Col tempo usciranno anche voci indegne, leganti l’omicidio del padre al sussurrato vizio di Michael col gioco d’azzardo ed il seguente ritiro al desiderio di Stern che abbandonasse la lega (quando invece il povero David si sarà inginocchiato pregandolo di restare); in realtà, coloro che uccisero il signor Jordan erano due balordi in cerca di soldi facili, probabilmente nemmeno sapevano chi fosse l’uomo che avevano davanti. Jordan meditò a lungo, si chiuse nella riservatezza e ad ottobre fece trapelare le sue intenzioni: avrebbe smesso di giocare per i Chicago Bulls. Il dolore era grande, soprattutto dopo nove anni sotto i riflettori non c’erano più le motivazioni necessarie a proseguire: comprensibile da capire per un atleta mosso da sempre dalla competizione, dalla volontà di essere il migliore, dall’amore per il gioco prima che da tutto il resto. La notizia destò ovviamente clamore, ma ancor più deflagrante fu il seguito: Jordan avrebbe tentato di giocare nella Major League di baseball. Quello era sempre stato il sogno del padre, e Michael pensò che fosse giunto il momento giusto per provare ad onorarlo. Lecito pensare che fosse uno scherzo, o un vezzo di poco conto: niente di più falso quando si parla di un uomo posseduto dalla fame di sfide. Jordan iniziò lo spring camp con i White Sox, la squadra di Chicago ma soprattutto il cui proprietario era lo stesso dei Bulls, Jerry Reinsford. Ebbe la sua occasione, ma non si rivelò all’altezza: come poterselo attendere da uno che aveva smesso di giocare a baseball a 18 anni, specie quando ci sono giocatori che impiegano un’intera vita per avere una chance di competere per la massima serie professionistica. Jordan fu così dirottato nelle Minor Leagues, trasferendosi a Birmingham per giocare coi Barons. Inutile dire come in Alabama la notizia del suo arrivo fu un terremoto per l’ambiente: biglietti che si vendevano come il pane, stadi tutti esauriti, un’atmosfera elettrizzante. Tutti volevano un pezzetto di Jordan, un autografo, un saluto, un sorriso, e dai ricordi delle persone emerge come lui fosse disponibilissimo con tutti, anche a giocare qualche partitella di basket ogni tanto. Quello che colpì davvero però furono i suoi miglioramenti: Michael sapeva di dover lavorare sodo per diventare un giocatore migliore e come aveva fatto ogni giorno della sua vita per il basket, con la stessa dedizione si tuffò nel baseball, allenamento dopo allenamento. I risultati incominciarono ad arrivare, assieme alle prime valide ed al primo fuoricampo, datato 30 luglio 1994. A Jordan piaceva l’atmosfera che respirava, la possibilità di vivere una vita normale, e talvolta si rilassava anche guidando il bus della squadra o andando a giocare a biliardo in un bar come un qualsiasi americano medio. La stagione successiva passò addirittura in Arizona per militare nella Fall League, da dove i giocatori hanno ottime chances di trovare un contratto nelle Major. Ancora una volta insomma aveva smentito gli scettici, dimostrando di poter diventare un giocatore di baseball vero. Fu il destino ad intromettersi, sotto forma di sciopero che colpì il baseball: Michael incominciò a farsi rivedere nelle palestre di Chicago, e di lì a poco sarebbe ricominciato tutto una seconda volta con due semplici parole ormai leggendarie: “I’m back”.

 
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Pubblicato da su 19 giugno 2011 in ESPN 30 on 30

 

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Il ritiro di Shaq

Stamattina mi sono svegliato ed accendendo il televisore le prime immagini che ho visto su un noto telegiornale sportivo sono state un collage di filmati di Shaquille O’Neal. Okay, ci sono arrivato subito al perché di un tal dolce risveglio a suon di thè biscotti e basket, ma per un attimo ci ho creduto. Ho sperato che il mondo finalmente si fosse rivoltato come un guanto ed avesse adottato la mia prospettiva nel vedere le cose, che il giornalismo sportivo avesse cambiato le priorità notte facendo  esordendo in scaletta con un po’ di parquet, palla a spicchi e un omone davvero divertente. Ovviamente le illusioni durano giusto il tempo di levarsi il mattino dagli occhi, e che fosse uno striminzito tributo che un paio di incompetenti avranno lanciato per celebrare in un minuto il ritiro di uno dei giocatori più importanti di sempre era scontato. Shaq si ritira insomma e sono onesto un po’ mi sono commosso. Non è mai stato uno dei miei giocatori preferiti, anche perché è difficile tifare per Golia, però era troppo divertente per non risultare simpatico. Certo era ora che decidesse di smettere, le ultime stagioni, probabilmente dal passaggio a Phoenix, non hanno reso onore alla tipologia di giocatore che è stato e agli equilibri che ha cambiato nella lega. Immagino anche che quando sei dentro al sistema da così tanto tempo recitando sempre una parte ingombrante nel copione, qualunque fosse il tuo ruolo in campo, non sia la decisione più immediata da prendere, anche se Shaq è l’ultimo degli individui che abbia come unico interesse il basket. Non assomiglia a Durant per intenderci, anche se forse Kevin un altro pallino lo ha: la Bibbia. Adesso che smetterà magari lo vedremo dedicarsi alla sua vera passione, non nascondiamoci, Big Fella è nato per diventare un poliziotto, di quelli che come Bud Spencer sistemano tutto con un paio di sganassoni ben assestati. Lo sceriffo Shaq, d’altronde con un padre militare che in adolescenza lo ha scarrozzato in giro per le basi statunitensi (dove tra l’altro veniva ammonito a non trastullarsi col basket ma a tornare al lavoro, lui che a 13 anni già veniva scambiato per un adulto) cosa era lecito attendersi? Più attore ed irresistibile cabarettistica che tutore della legge dite? Sposo anche io la stessa teoria, però all’interessato andate a dirlo voi. In carriera ha vestito la maglia di sei squadre, anche se a me piacerebbe ricordarlo solo per le prime tre. Ve la ricordate ancora la divisa di Orlando nei primi anni ’90, il suo sorrisone al draft, le pubblicità per la Pepsi, la prima combo con Penny Hardaway che condusse i Magic in finale con i Rockets di The Dream? Ecco magari la lezione subita da Olajuwon ed il trituramento operato da Houston meglio tralasciarli. Poi i Lakers, la piazza ideale per il suo talento multiforme, la pazza operazione ordita da Jerry West per riuscire a prenderlo, i primi anni stentati in cui non si decollava con il sosia di Leslie Nielsen in panca e Van Exel in regia. Ci volle Phil Jackson, ancora lui, la maturazione di quel ragazzino proveniente direttamente dall’high school, tale Kobe Bryant, e magari pure la presenza di Horry perché i successi iniziassero. Tre in fila e finalmente luccichii alle dita, soprattutto stagioni in cui la concorrenza ad est non era eccelsa (finaliste Indiana di Bird, la Phila di Iverson e della partita impossibile in gara 1 allo Staples, i Nets di Kidd) ed invece la parabola del centro da Louisiana Tech era al vertice. Da lì il lento declino, i dissidi interni, la finale persa coi Pistons ed il cambio di costa, nuovamente in Florida ma a Miami, l’insperato titolo del 2006 dove pesava ancora ma ormai non era più l’uomo che doveva trainare la diligenza. Sei finali, quattro titoli. Nell’incedere del percorso, anche un oro mondiale a Toronto ed uno olimpico ad Atlanta. C’è di peggio. Adesso non voglio addentrarmi in discorsi di grandezza, ma di sicuro la sua presenza ha cambiato il modo di giocare nell’Nba, dato che gli avversari han dovuto adattarsi alla sua presenza in post basso. Cronico punto debole i tiri liberi, si vociferava colpa di un misfatto capitatogli da ragazzo, la rottura del polso. Facciamo un po’ le mani gigantesche, facciamo tanto la pigrizia di non voler piantarsi lì sulla linea ed allenarsi a diventare almeno decente, anche perché quelli importanti andavano dentro con maggiore costanza. Ha segnato 28000 punti abbondanti, avesse convertito un terzo di quelli sbagliati forse parleremmo del primo marcatore di sempre. Nel periodo d’oro era potenza pura, esplosività incontenibile, se riceveva nel pitturato meglio levarsi perché anche il fallo era un palliativo, capace com’era di portarsi a casa tutto, ferro, avversario e un paio di volte pure il tabellone. Ma attenzione, Shaq era molto più di questo e ce l’ha mostrato per anni. Buonissima tecnica in semigancio, piedi molto più veloci di quanto potesse essere lecito attendersi, ottime doti di passatore in post basso sui tagli, bravo ed infermabile nel prendere posizione, efficace nello spin-roll, il movimento che piace tanto anche ad Howard, quello che aveva perfezionato con Brian Shaw nominandolo “Shaw-Shaq redemption” in onore ad un famoso libro e poi spettacolare film (in Italia conosciuto come Le ali della libertà). Quando a rimbalzo ci andava per davvero oscurava la vallata. Perché della capacità di passatore vogliamo parlare? Un uomo di quella stazza capace di condurre il contropiede palleggiandosi tra le gambe e non solo per scherzare. Shaq per me è sempre stato sottovalutato tecnicamente, anche se ovviamente oltre i 3-4 metri da canestro era totalmente fuori sceneggiatura. Mi mancherà perché anche se ha fatto parte di un mondo Nba già in declino tecnicamente e nella capacità di giocare per davvero a basket il suo addio sancisce l’inizio della fine, la fine dell’epoca caratterizzata dai giocatori arrivati negli anni ’90. Come è svanita la generazione di Jordan, Malone, Barkley, Miller, Stockton, Mullin, Ewing, Drexler, Richmond, Pippen in pochi anni si ritireranno anche Duncan, Garnett, Allen, Nash, McGrady, Hamilton, anche Bryant, lasciando il posto a nuove orde. Mi mancherà perché rendeva tutto più godibile con la sua verve. Di aneddoti da citare ce ne sarebbero a centinaia, in ma soprattutto fuori dal campo. Come quando a 32 anni appena compiuti e qualche stagione sulle spalle prima della partita si rivolse a uno degli arbitri chiedendogli esattamente la spiegazione della regola sull’invasione nei tiri liberi. Inarrivabile. Questo il contenuto del breve filmato che ha lasciato ai suoi tifosi su twitter, il suo nuovo ed inflazionato mezzo di comunicazione col mondo: “We did it.19 years baby, I wanna thank you very much, that’s why I’m telling you first. I’m about to retire. Love you. Talk to you soon”.

 
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Pubblicato da su 2 giugno 2011 in NBA

 

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Profili 3.Harri Olli

Come un dito ti possa cambiare la vita. Se poi si tratta di quello medio la citazione trova maggiore spiegazione. È quello successo a novembre ad Harri Olli, incarnazione dello stereotipo dell’atleta talentuoso ma discontinuo. E terribilmente incapace di gestirsi ed essere gestito. Un’altra stagione di salto dal trampolino se n’è andata in archivio, guarda caso con l’ennesimo trionfo di un austriaco in classifica generale (stavolta l’onore è toccato a Tomas Morgenstern) ed il ritiro di uno dei più grandi di sempre della disciplina, il polacco dai tristi occhi cerulei ma dal baffetto allegro Adam Malysz che ha pensato bene di decorare la sua ultima gara in carriera in quel di Planica, Slovenia, con la ciliegina del 92° podio. Bruscolini per l’uomo da Wisla. A salutare il quattro volte vincitore della coppa del mondo c’erano tutti, o meglio quasi tutti. Harri chissà dove si trovava, forse davanti al televisore nella sua residenza di Lahti dove convive con la  ragazza, forse stava studiando matematica sui banchi dell’università di Rovaniemi o forse era impegnato a fare altro. Di certa c’era solo la sua assenza, una stagione che il ragazzo dal visino d’angelo ha deciso di interrompere praticamente all’esordio. Ricapitolando i fatti: 28 Novembre 2010, domenica mattina. Vanno in scena i salti di qualificazione per la gara di Kuusamo, prima della stagione invernale. Teoricamente una formalità per un atleta dello spessore di Olli, nonostante con il finlandese la parola teoria mal si associa alla pratica in quanto la sua discontinuità è proporzionale al talento espresso nei periodi di forma migliore, mentale ancor prima che fisica. Anche sul suolo natale se ne ha conferma. Le condizioni atmosferiche non sono delle più propizie, non a detta di Harri almeno. Troppo vento, meglio rimandare e onestamente questa è l’opinione che si fa strada non solo nella mente del lappone, ma pure in quella della maggioranza degli addetti ai lavori. Non per i giudici però, che valutano diversamente. Il finnico quindi deve esibirsi dal trampolino, ma il salto come da pronostico si rivela un mezzo fallimento. Appena 77 metri, misura scarsina, Olli nemmeno si preoccupa di piazzare il telemark all’atterraggio, 57esima posizione e gara da osservare col binocolo. Olli però stavolta non la prende col savoir faire tipico dei saltatori, convinto di esser stato penalizzato, e pensa bene di dire la sua alle telecamere ed indirettamente anche all’operato dei giudici. Siccome un gesto vale più di mille parole, voilà un bel dito medio che si innalza dalla mano destra per un cristallino primo piano in diretta. Simpatico diranno alcuni, cafone altri, ma in fin dei conti una marachella specie se ad esser presi come metro di paragone sono atteggiamenti provenienti da altri sport. Già, ma questo è sci nordico, dove esiste un regolamento che viene applicato e dove non si è abituati a certe bizze da parte degli atleti. In breve tempo le prime conseguenze dal gesto: squalifica dalla gara di Kuusamo, ma questa era facile, ed automatica squalifica per quella successiva che sarebbe stata disputata a Kuopio, sempre in Finlandia. La vicenda non finisce qui. Ai vertici alti il comportamento non è proprio andato giù, tanto che arriva pure l’allontanamento dalla squadra nazionale finlandese, il che equivarrebbe in automatico anche al rischio più che tangibile di veder sfumare le possibilità di partecipare ai mondiali di Oslo previsti per Febbraio. Una bella batosta, ma la bufera prevede ancora qualche ulteriore affondo: Kimmo Kyykkänen, il tecnico che lo seguiva da diversi anni, decide che la misura è colma ed interrompe il rapporto lavorativo che intercorreva tra i due. Senza avventurarsi nei dettagli lascia trapelare che quello di Kusaamo è solo l’ultima goccia di una serie di episodi poco edificanti che hanno portato il bicchiere della sua pazienza a traboccare. Prima di poter tornare alle gare, e soprattutto tornarci per recitare un ruolo da protagonista, il suo ex allievo dovrà mettere ordine nella sua testa e nella turbolenta vita privata, sostiene. Già, perché quando si fa il nome del nostro nell’ambiente di chi almeno ha qualche nozione di salto con gli sci e un paio di gare le ha seguite la prima cosa cui l’interlocutore pensa non sono i suoi risultati sportivi, ma l’extra, quello che succede nei bar dove il finnico ha la sinistra tendenza ad alzare il gomito con implacabile frequenza e a dare del tu al bicchiere non solo in senso metaforico: pare infatti che in un alterco con la sua fidanzata degenerato in rissa il sopracitato bicchiere sia stato usato come corpo contundente. Se poi al carico si aggiunge che nelle baruffe conosce come muoversi avendone bazzicate più di una, sono documentate sbronze anche nell’imminenza delle gare e i modi garbati nei confronti della stampa in più di un’occasione sono considerati degli optional, il quadro è completo e non si tratta esattamente di un Gauguin. Peccato, un vero peccato perché il talento sprigionato da quel fisico di poco più di 1,70m non era discutibile, e avrebbe consentito al ragazzo di competere coi più grandi, o quantomeno di diventare ospite fisso dei top 10. Ma un carattere particolare lo ha portato a non offrire mai grande continuità anche nel corso di una stessa serie di salti: primo da applausi, seconda serie disastrosa o viceversa. In sostanza, diversi fattori ma identico risultato finale, ovvero prestazione compromessa. Tecnicamente era un volatore puro, adatto dunque ai trampolini più lunghi ed alle grandi distanze, quando si atterra oltre i 200 metri per capirci. La sua debolezza mentale ha però fatto si che non riuscisse mai a completare il processo di crescita tecnica, lasciando lacune che l’umore del momento sapevano accentuare o nascondere. Avrebbe potuto vincere molto più del suo bottino finale insomma, e per questo resterà un talento incompiuto, uno dei tanti, troppi atleti cui viene riconosciuto enorme potenziale ma alla prova dei fatti non riescono a trovare il canale giusto per esprimerlo. Parlo di bottino finale perché Olli si è ritirato dall’attività agonistica quest’anno, a soli 26 anni appena compiuti. La decisione è stata presa dopo il ritorno dalla squalifica ed i deludenti risultati sul trampolino nipponico di Sapporo, cui forse il finlandese legava le soddisfazioni maggiori della carriera. Fu sull’isola di Hokkaido infatti che ai mondiali del 2007 riuscì a strappare un inaspettato argento concludendo di soli due decimi dietro allo svizzero Ammann, quando ancora non aveva ottenuto nessun risultato di rilievo nel circuito in cui aveva esordito cinque anni prima. La sua migliore stagione, sostanzialmente anche l’unica, fu quella del 2009, dove nei primi mesi dell’anno riuscì ad aggiudicarsi tre prove di coppa del mondo, che rimangono anche i suoi unici successi. A completamento dello scarno palmares restano da citare i due gradini del podio meno agognati ottenuti nella prova a squadre ai mondiali del 2008 e del 2010. Cosa farà ora non è dato sapere. Dopo l’annuncio del ritiro ha sostenuto di non voler abbandonare il mondo del salto con gli sci, di tornare a Rovaniemi, suo luogo di nascita, per mettersi a lavorare in un negozio di cera per gli sci di un suo amico. Come sostiene il suo connazionale Nieminen, un esperto di salto, in conformità ad il suo carattere ancora una volta il ragazzo ha scelto la via più facile, dimostrando di non avere quella ferrea volontà, quella forza mentale che sono il pane per chi si cimenta nello sport, dove Olli potrebbe ancora avere una carriera costellata da soddisfazioni in quanto certe doti che possiede non si insegnano. Però Harri è uomo ormai, è consapevole della decisione che ha preso e va rispettato per questo. Lui stesso sembra non farne un dramma. Difficile dunque pronunciarsi dicendo se sia una storia finita bene o male. Certo è che la sua assenza passerà quasi inosservata ai più, ma sapendo quanto avrebbe potuto valere del rammarico resta.

 
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Pubblicato da su 30 marzo 2011 in Personaggi

 

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