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Mercato NBA: nuova tendenza?

 É passata una settimana dalla deadline, il termine ultimo per le operazioni di mercato nell’Nba, e questa stagione dopo la bollente estate ha vissuto anche un inverno turbolento, con molti movimenti ed un paio di cambiamenti di casacca rumorosi concentrati nell’Atlantic division. Ma più che analizzare gli scambi in sé, operazione divertente ed allo stesso tempo piuttosto azzardata se compiuta a caldo, quel che sembra emergere é una nuova tendenza negli spostamenti e nella creazione delle squadre. Cercare di dare una risposta a questo quesito potrebbe essere la parte più interessante della vicenda. Melo che si accasa nella Grande Mela portandosi appresso Billups e qualche contratto in scadenza in cambio praticamente di mezza squadra Knicks; Deron Williams che abbandona la soporifera Salt Lake City trasferendosi nel trafficato New Jersey la cui franchigia é prossima alla dislocazione in quel di Brooklyn. Due giocatori di indubbio peso ed impatto che vengono spostati a stagione in corso, anche se probabilmente per ragioni differenti. Operazioni che potrebbero inserirsi in un disegno molto più ampio, iniziato coi fuochi d’artificio estivi e lungi dall’esser esaurito viste le situazioni contrattuali di diversi big per il prossimo anno. Sia Chris Paul che Dwight Howard infatti han già ventilato la possibilità di esplorare il mercato per vedere cosa gli si potrebbe prospettare lasciando la loro attuale sistemazione, eventualità che farebbe e ha già fatto aumentare non poco le palpitazioni in quel di New Orleans ed Orlando. Situazione in continua metamorfosi dunque, che se analizzata porta alla luce alcuni elementi: i giocatori più talentuosi o quantomeno che hanno più status tendono a raggrupparsi tra loro, e tendono a farlo in squadre che hanno risalto mediatico, non necessariamente in quelle con le maggiori possibilità di competere per l’anello. Ultimo esempio l’arrivo di Melo a New York su cui tanto si é vociferato ed alla fine é avvenuto per la gioia dei media della Grande Mela. Peccato che i rumors volevano l’ex Nuggets accasato ai cugini, i Nets come la proprietà di Denver avrebbe gradito, mentre il giocatore spingeva per i Knicks. Alla fine dove é finito? La tendenza che si prospetta mi sembra questa: una lega dove gli scambi e dunque il mercato sono sempre più nelle mani dei giocatori e dei loro agenti e sempre meno in quelle delle squadre, con ovvi cambiamenti nei rapporti e negli equilibri. A farne le spese maggiori salta subito all’occhio come dovrebbero essere le franchigie appartenenti ai mercati minori della NBA, le varie Milwaukee, Indiana, Charlotte, Salt Lake City o Sacramento per capirci. Non che ci sia qualcosa di male ad avere stelle che decidano di raggrumarsi attorno a tre quattro squadre cambiando gli equilibri della lega, ma il problema, che si stanno ponendo sia i vertici stessi della NBA che i proprietari è che l’intero sistema perda la sua potenziale competitività, la teorica possibilità per ogni squadra di poter lottare per il titolo ed avere una squadra vincente, che conseguentemente sancirebbe anche la perdita di attrattiva da parte dello stesso prodotto. Come ulteriore aggravante (o forse la vera questione su cui dibattere volendo gettare la maschera) ci sarebbe, aggiungo io, che le squadre competitive gira e rigira finirebbero coll’essere sempre le solite, ovvero quelle che garantiscono la maggiore esposizione mediatica o che hanno maggior status tra gli atleti per motivi climatici, di glamour o altro ancora, vale a dire le varie LA, New York, Miami, Chicago, Boston. Ma in questo caso le altre 25 che ci starebbero a fare, le sparring partner? Son tutte opzioni paventate ma che ancora non hanno espresso certezze soprattutto a causa dell’incombere della ridiscussione del contratto collettivo, dunque a catena del salary cap che potrebbe modificare drasticamente il modus operandi delle franchigie. Certo resta il fatto che attualmente alcune delle squadre di punta appartengano a mercati molto piccoli, vedasi San Antonio ed Oklahoma City , ma entrambe sono rimaste sulla cresta dell’onda per un decennio o promettono di farlo in futuro grazie a due componenti: la fortuna e la bravura della dirigenza. Nel caso dei Thunder la bravura è stata assemblare la squadra scegliendo in primis attraverso le scelte i pezzi giusti da affiancare alla stella, ragazzi che avessero caratteristiche tecniche e caratteriali adeguate, ma la fortuna, la grande fortuna è stata trovarsi Kevin Durant disponibile alla numero due solamente perché Portland aveva pensato bene di utilizzare la prima chiamata assoluta per il povero Greg Oden, centrone perennemente infortunato. E dire che i Blazers di scelte sbagliate eran stati protagonisti pure una ventina di anni addietro. Per quanto riguarda gli Spurs buona sorte ed abilità si mischiano: indubbiamente è un regalo degli dei avere una stagione disgraziata e beffare clamorosamente Boston che se possibile ne aveva avuta una peggiore vedendosi assegnare la pallina della scelta numero uno proprio nell’anno in cui da Wake Forest usciva Tim Duncan, come altrettanto vero è abilità sapersi muovere sul mercato dei free agent riuscendo a portare in città i giocatori adatti al sistema. Ma è anche vero che se si può ritenere bravura aver capito le potenzialità di Ginobili e Parker, c’è anche una buona dose di fortuna l’averli trovati ancora disponibili da scegliere alla fine del secondo giro come è successo per l’argentino o a quella del primo nel caso del franco-belga. Fortune che se non si ripeteranno potrebbero costringere una squadra come quella texana a vivere nell’oblio per chissà quante stagioni e senza grandi certezze riguardo una possibile rifioritura. Discorso diverso per gli Utah Jazz che non avranno vinto quattro titoli come gli Spurs ma in finale ci sono arrivati due volte alla fine degli anni novanta grazie al duo Stockton-Malone ed hanno avuto innumerevoli stagioni dal record positivo grazie al sistema adottato da coach Sloan, condottiero della squadra per ben 23 stagioni, altra anomalia che pare difficile potersi ripetere. Insomma situazioni rare, più episodiche che altro. Ma non è del tutto vero neppure questo. Certo in estate abbiamo assistito ad un ribaltamento della concezione classica di “come assemblare una squadra” con l’arrivo di James e Bosh a Miami, una decisione presa dai giocatori che sostanzialmente si son detti “noi decidiamo di giocare assieme, noi creiamo la squadra e noi vinciamo in pratica da soli allestendo un supporting cast alla belle meglio”, in un certo senso scavalcando il ruolo del general manager e della dirigenza. La tendenza potrebbe diventare questa. Potrebbe, ma comunque non significa che risulti poi quella vincente. O se anche fosse, comunque non l’unica via percorribile. Avessero ragionato in questo modo i Detroit Pistons non avrebbero formato la squadra equilibrata che han saputo allestire e non avrebbero disputato due finali portandosi a casa un titolo e restando protagonisti ai vertici per diverse stagioni. Lo stesso dicasi per altre squadre nel recente passato, come i Magic o i Mavericks. Spazio per la creatività dei general manager e le loro capacità valutative, oltre che all’abilità nel destreggiarsi col salary cap, sembra esserci ancora. Per quanto riguarda il futuro prima di pronunciarsi con certezza bisognerà conoscere le nuove regole con cui si giocherà. Quello che vuole essere un augurio è che il giocattolo non venga rotto, che continui a produrre alternanza al potere e teoriche uguali chances per tutti, quelle che comunque la si voglia vedere han portato 7 squadre a vincere il titolo negli ultimi vent’anni ma soprattutto 18 formazioni su 30 a disputare le finals. Un bel biglietto da visita.

 
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Pubblicato da su 8 marzo 2011 in NBA

 

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