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Sottoghiaccio – Mondiali U20

Se a qualcuno interessa, ci siamo anche noi. Ma i giovanotti rampanti dell’hockey non devono certo urlarlo questo messaggio. Tutti gli occhi dell’ambiente convergevano su di loro, in questa edizione canadese che dunque aggiungeva quel tocco di zenzero in più. Come al solito i nordamericani si son dimostrati maestri nell’organizzazione ma non han centrato il bersaglio grosso, rimanendo nuovamente a bocca asciutta. Il Canada hockeistico vive la stessa, atavica sindrome che aleggia intorno ai giovani carioca nel football: essendo quasi per consuetudine considerati i più forti e talentuosi partono sempre coi favori del pronostico che sulla carta li vorrebbe campioni in ogni competizione giovanile, salvo poi essere smentiti dai fatti. La storia è ciclica e non ripropone mai grandi novità, eppure ancora non si è metabolizzato che non sempre chi è teoricamente il più forte o dotato tecnicamente vince; specie negli sport di squadra le componenti che caratterizzano il successo finale sono un amalgama ben bilanciata tra vari fattori. La squadra che meglio riesce a farli collimare è quella destinata a percorrere più strada. Dunque anche stavolta le previsioni sono state buggerate bellamente e a trionfare dopo decenni di digiuno è stata la Svezia, squadra solida e da sempre potenza preminente dello sport sul ghiaccio, cui però mancava l’affermazione nel mondiale giovanile dal 1981. Considerato che l’evento ha cadenza annuale un’eternità. Chi ha dovuto applaudire un gradino sotto nel podio sono stati i russi, caparbi ragazzi cui sarà costato tanto battere le mani sapendo di dover deglutire un amarissimo rospo arrivato sotto forma di sudden death (Zibanejad l’autore), l’equivalente del fu golden goal pallonaro, dopo un’intera partita vissuta col brivido a reti inviolate. Logica conseguenza che i premi di migliori giocatori della partita siano andati ad entrambi i portieri, anche se la statistica dei tiri in porta racconta tanto della gara: gli scandinavi vincono 58-17. Certo non conta quanto si tira ma la qualità, ma un divario del genere è innegabile dato di una netta superiorità nel gioco. I Canadian Boys sono comunque riusciti a strappare un sorriso al pubblico casalingo salvando l’onore con la terza piazza strappata ai finnici, già battuti anche nel primo turno. Inutile aggiungere però che il cioccolatino di consolazione fosse insipido date le premesse e le aspettative. Due sono state le partite sintomatiche e decisive anche ai fini pratici, che han mostrato i limiti della squadra: la sfida contro gli Stati Uniti nell’ultima partita del girone eliminatorio e la semifinale persa contro la Russia. Doveroso aggiungere come nell’intera manifestazione a dieci squadre non siano più di cinque o sei quelle di valore, in quanto il gap con Lettonia, Danimarca e Svizzera oltre che la Slovacchia era piuttosto marcato. Nella prima i ragazzi di coach Don Hay sono andati in vantaggio 3-0 controllando agilmente la gara, ma la presunzione e la certezza della vittoria in tasca han generato un vistoso calo di concentrazione provocando il ritorno in gara degli yankee con 2 reti. Il finale infuocato insomma se lo sono andati a cercare. Trama differente nella semifinale, cui i russi arrivavano dopo l’impegnativo quarto di finale disputato contro la Repubblica Ceca. Quello contro l’altro grande gigante geografico è il vero duello che anima questo sport a livello giovanile, dato che le due squadre si sono divise la maggior parte delle medaglie d’oro finora in palio, lasciando le briciole agli altri. I russi erano anche detentori del titolo e hanno mostrato alcune ottime leve, Kutnesov e mister assist Yakupov su tutti, ma il perno su cui ha giostrato la partita è stato il volontario ed incomprensibile suicidio canadese. Vedendoli pattinare si percepiva chiaramente come fossero più forti, hanno surclassato i russi al tiro ma sono andati sotto con leggerezze e sciocchezze degne di gag comiche, come prendere goal sul cambio di linea perché ci si dimentica completamente dell’ala sul lato opposto. Lo sbandamento ha poi provocato perdita di concentrazione e tranquillità, sono saltati i nervi e sono arrivate penalità banali ed inutili. Risultato, a metà del terzo periodo sono sotto 1-6. Eppure il pubblico non smette di crederci e sostenere i propri ragazzi, e non si tratta di comportamenti di rito. Con alcune fiammate di talento puro i canadesi iniziano la rimonta accostando pezzi di bravura ad alcune giocate fortunose. A quattro minuti dalla fine si son riportati sul 5-6, il che ha dell’incredibile. Purtroppo per loro la rimonta si arresta lì, il fortino russo tiene. Come al solito insomma mostrano un talento chirurgico nello sprecare opportunità. In questa partita fa la sua apparizione il portiere di riserva Visentin, se vi suona veneto non state sbagliando, che nella finalina contro la Finlandia si esibirà in una parata col guanto dietro la schiena, e spiccano come Giano bifronte Connolly e Gallagher, due artefice della rimonta ma anche di insensate penalità ed errori precedenti. Vale a dire l’indiscutibile abilità di azzoppare la propria squadra distribuendo pignatte gratuite agli avversari. E sì che Connolly gioca già in Nhl. Onore agli svedesi dunque e arrivederci all’anno prossimo in terra russa.

 
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Pubblicato da su 21 gennaio 2012 in Hockey

 

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Hockey di fine anno

In Nhl sono quasi arrivati alla boa di metà stagione, ma in realtà non mi interessa più di tanto stilare un bilancio delle squadre so far. Anche perché onestamente il campionato non riesco a seguirlo con continuità, le notizie le capto col lanternino e non sempre sono una fonte diretta. Quindi nessuna presunzione di commentare quello che non si sa. Noto dalle classifiche che alcune squadre di primo livello hanno tardato a carburare lasciando spazio ad altre realtà, ma pian piano si stanno riprendendo le posizioni sulle quali ci si aspetta possano attestarsi. D’altronde si sa, questo è uno sport che non regala nulla, se resti indietro di un passo c’è subito qualcuno pronto a prenderti il posto. Per ora vedo che Vancouver, San Josè, Boston e Detroit si sono riprese bene, mentre altre come Montreal e Washington ancora stentano. Si osservano i punteggi per scoprire inoltre come le classifiche siano molto strette in entrambe le conference, conferendo speranze anche a chi ora si trova nelle retrovie. Chi mi stupisce è Pittsburgh ancora in attesa del golden boy Crosby, eppure super efficace. Malkin, il braccio destro del canadese, lui pure tornato da un infortunio certo non leggerino, si è ripreso alla grande e nel paio di partite in cui l’ho visto è stato protagonista come ai vecchi tempi. Il resto della squadra, specie le terze e quarte linee, sono giocatori coriacei che stanno sorprendendo. I Penguins sono a due soli punti dalla vetta in cui si sono installati i New York Rangers; oddio, mai visti tanto in alto ma sembrano granitici: meno goal di loro li concede solo Boston. Altre sorpresone stagionali sono i Florida Panthers e Minnesota, solita squadraccia con poco attacco ma solida dietro, e si sa quanto conta avere un portiere di livello. Detto di Vancouver, delle altre mie canadesi Edmonton è notoriamente nei fondali melmosi, Calgary ed Ottawa sono sul filo del rasoio dell’ottava moneta, Toronto pare un gradino sopra ma è tutta apparenza, negli stessi circoli bazzica Winnipeg e questo è davvero un evento perché il team si è costituito quest’anno con gli avanzi delle altre. Non posso che esserne felice anche perché fidatevi, in quella città non c’è esattamente tantissimo altro da fare. Ma non volevo parlare di questo. Oggi che l’anno volge al termine avevo piacere a ricordare il Lokomotiv Yaroslavl, squadra russa spazzata via da un incidente aereo a settembre, proprio all’inizio del campionato. In quella squadra c’erano ottimi giocatori, ma non è un dettaglio rilevante. Spiace solo che ad una tragedia del genere non sia stato reso il doveroso omaggio. Ma ormai avverto menefreghismo anche nei confronti della morte, a meno che non si possa spettacolarizzare. Infine volevo citare alcune ragioni che mi fanno apprezzare l’hockey molto più di altre discipline, anche se si tratta di uno sport praticato sul ghiaccio e adatto per la gente dei paesi freddi. Mi piace l’hockey perché non scherza. Non lo si può fare. Non puoi giocare le partite come se stessi andando a fare una scampagnata, perché gli avversari te lo ricorderebbero subito. O dai il massimo o non scendi sul ghiaccio. Mi piace perché è essenziale, senza fronzoli. Niente trucchi, niente apparenze, si va dritti al punto. Così mi piace lo sport. Nasce dal gelo ma emana calore nell’energia di chi lo gioca e nella passione di chi lo segue.  Mi piace perché i suoi giocatori sono uomini veri e non fighette attorniate da cicisbei. Perché esistono ancora le bandiere e quarantenni dalla scorza dura che non sentono ragioni per smettere. Mi piace per la divisa ed il casco del portiere, perché è uno sport difficile che alle abilità di gioco combina quelle del pattinaggio. Mi piace perché anche se gli Stati Uniti la fan da padrone a livello di distribuzione, non è un gioco loro. Gli stati che se la giocano non saranno tantissimi, ma difficilmente vincono sempre gli stessi. Anche se i Canadesi sostengono che lo fanno per non ammazzare l’interesse. Mi piace perché il plexiglas che cinge la pista e la sua struttura ellittica lo fanno assomigliare tanto ad un’arena, e quando vedi i giocatori senza qualche dente ti convinci che sia vero.

 
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Pubblicato da su 28 dicembre 2011 in Hockey

 

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Canada Terra d’Hockey – British Columbia

E non solo, verrebbe da dire. Il popolo canadese dimostra di avere una sviluppata cultura sportiva, di saper apprezzare svariate discipline praticandole a vari livelli e con lo spirito giusto, quello che appunto viene semplicemente definito sportivo. È gente cui piace stare all’aria aperta e fare movimento, due requisiti essenziali. Arrivati ad Ovest, Vancouver soprattutto ma in generale l’intero stato della British Columbia, tanto grande da essere capace di contenere due volte il territorio spagnolo, se ne ha la netta sensazione. Inutile ricordare come all’inizio del 2010 questa splendida città affacciata su di un’insenatura del Pacifico abbia ospitato i Giochi Olimpici invernali, conclusisi tra l’altro nella maniera più dolce possibile, la medaglia d’oro nel torneo di hockey che i beniamini di casa hanno strappato ai tempi supplementari contro gli arci rivali statunitensi. Rete decisiva dal coefficiente di difficoltà alquanto elevato siglata manco a dirlo dalla stella delle stelle, quel Sidney Crosby che a nemmeno 25 anni ha vinto tutto il vincibile, si tratti di trofei di squadra o individuali, raggiunti col club o la maglia della nazionale. Idolatrato a priori, lui che proviene dall’estremo opposto, la città di pescatori a nome Halifax, sicuramente non nelle maggiori rotte turistiche. L’assegnazione dei Giochi ha mostrato la poliedricità della città, baciata dagli dei come collocazione geografica, stretta tra mare e montagne, con un clima mite se confrontato con le medie canadesi e l’unico difetto di assomigliare maledettamente troppo a quello che si sorbiscono le cugine americane del nord-ovest, Seattle in testa nominata non casualmente Rainy City. Vancouver sotto questo aspetto è separata alla nascita, d’inverno praticamente non nevica mai se non sulle montagne limitrofe ma in compenso piove come se fosse stata ricevuta una benedizione, anche una settimana di fila senza accenni a tregua alcuna. Non fosse per questo una candidatura a città più bella e vivibile dell’intero continente potrebbe tranquillamente essere presentata, anche se i dati di affluenza demografica confermano che nonostante l’incessante ticchettio delle gocce sui vetri la metropoli sta crescendo rapidamente ed in meno di dieci anni si prevede possa raddoppiare il numero dei suoi abitanti, tra cui spiccano le massicce comunità asiatiche, cinesi in testa come sempre ma polpose sono anche le rappresentanze giapponesi, coreane e mongole. D’altronde l’Asia dista un battito di ciglia e il lavoro sembra non mancare. Tornando allo sport, l’offerta cittadina soddisfa numerosi palati: si possono praticare un’infinità di divertimenti legati all’acqua ed alla montagna (l’immenso porto è sede di attracco di migliaia di imbarcazioni a vela, mentre dall’altro capo della baia si possono vedere planare ed atterrare quotidianamente gli idrovolanti), l’estrema propaggine di Stanley Park è un’enorme oasi letteralmente a due passi da downtown in cui dedicarsi a corsa, pattini a rotelle, bicicletta. In città va forte anche il calcio, grazie tra gli altri pure a Steve Nash, che è di queste parti e al pallone ha dato una notevole spinta (oltre ad aver aperto una catena di palestre), diventando addirittura uno dei proprietari della nuovissima squadra della Major League, i Whitecaps, che ha esordito proprio quest’anno. Più che a livello professionistico però colpisce quanto questo sport sia praticato dai ragazzini, che al sabato pomeriggio affollano i campetti dei vari quartieri per giocare partite in serie. Nutrita anche la batteria di squadre femminili. In città dopo l’abbandono dei Grizzlies (destinazione Memphis dove non ci sono necessariamente connessioni con gli orsi), squadra di basket che ha resistito poche stagioni lasciando i Raptors di Toronto come unici rappresentanti canadesi nell’Nba l’attrazione principe sono infatti i Canucks di Hockey, guidati dal portiere italo-canadese Roberto Luongo e dai gemelli svedesi Sedin. Nella stagione appena conclusasi la franchigia festeggiava i 40 anni di vita, essendo stata fondata nel 1970, ed in città enormi cartelloni commemorativi tendevano a ricordarlo praticamente ad ogni angolo, mostrando le gigantografie dei faccioni dei componenti attuali del team. Nonostante la straordinaria stagione l’esito è stato drammatico, con la finale persa in casa all’ultima gara e la conseguente guerriglia urbana scatenatasi per via di delusione, alcool e pura idiozia scekerate con sapienza. Resta comunque grande la vicinanza all’unica vera squadra professionistica cittadina, che gioca in un impianto, la Rogers Arena, che non sarà in centro ma quasi, distando solo una fermata di metropolitana sia dalla via cardine del centro che dalla stazione ferroviaria. Allargandosi alla British Columbia una citazione la merita anche Vancouver Island, l’isola su cui si trova la capitale statale, Victoria, una cittadina britannica prestata agli ex sudditi d’oltremare, base dalla quale si irradiano le vagonate di appassionati di surf che si riversano annualmente sull’isola per godere di alcune spiagge sulla costa che sorride all’oceano aperto fantastiche per gli amanti della tavola, per cui si sa, il surf oltre che un divertimento è soprattutto uno stile di vita.

 
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Pubblicato da su 31 luglio 2011 in Hockey, Sport & Cultura

 

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Canada Terra d’Hockey – Quebec City

Arrivi a Quebec City e ti accorgi in meno di un battito di ciglia che non è la normale cittadina canadese, né tantomeno richiama lo stile piuttosto semplice pochi fronzoli e immediata concretezza che si addice agli americani. Anche qui gli eventi e le culture han seguito il naturale evolversi del tempo modernizzando l’ambiente, ma l’impressione di getto se ad accoglierti è la vista della città vecchia appena uscito dalla stazione ferroviaria è quella di un balzo indietro nel tempo, agli anni ’20 o con una bella immaginazione galoppando si potrebbe giungere sino ad un paio di secoli addietro. Se poi si è appassionati della belle époque o della cricca di artisti e scrittori che aveva eletto a Parigi il centro della mondanità e della cultura decadi orsono, che annovera Picasso, Modigliani, Diego Rivera, Hemingway o Henry Miller tra i tanti, ecco che l’associazione pare ancora più logica e le storie, le impressioni, le parole di quegli scritti prendono rapidamente forma e vita in un palazzo, un tetto, un vicolo, un ciottolato. Quebec City è palesemente una cittadina francese trapiantata in territorio canadese, una di quelle che si possono ammirare in regione costiere come Normandia o Bretagna, forse un tantino più elegante dato che deve sostenere il ruolo di capitale della vastissima regione francofona. Appena fuori le mura della città vecchia, splendidamente conservate in alcuni suoi tratti, sorge il palazzo del parlamento circondato da tutti gli uffici di competenza ed un magnifico giardino, ma questo non era nemmeno quotato. All’interno ci sono orari specifici in cui si possono effettuare le visite e talvolta anche assistere ad una seduta del parlamento stesso, tutta rigorosamente in francese: avendone la possibilità e le capacità per capirla, un’opportunità da cogliere, con i parlamentari dei due schieramenti avversi, quello indipendentista e l’altro maggiormente collaborazionista con Ottawa, che a turno prendono parola in un acceso duello verbale fatto di botta e risposta tema dopo tema. Ovviamente tra memorie europee e bandiere regionaliste col giglio francese non mancano tracce dello sport più amato dagli uomini del freddo, anche se viene toccata una ferita non ancora rimarginata: nonostante demograficamente la popolazione non tocchi nemmeno le duecentomila unità, un mercato risibile per gli standard americani, fino al 1996 in città spadroneggiava una squadra appartenente all’Nhl. Negli anni ’90 però la forza del dollaro statunitense creò non pochi problemi alle franchigie canadesi, che dovettero far fronte ad una valuta di casa molto indebolita, il che equivaleva a grosse grane nel pagamento degli stipendi e nelle acquisizioni dei giocatori. Alcune resistettero, mentre quelle meno  solide finanziariamente, anche perché appartenenti a città non grandissime, Winnipeg ed appunto Quebec City, dovettero alzare bandiera bianca chiudendo i battenti per riaffiorare in altra sede (rispettivamente diventarono Phoenix Coyotes e Colorado Avalanche). Un affronto che gli orgogliosi abitanti della città alla foce del San Lorenzo non vedono l’ora di vedere lavato con la reintroduzione di un team nell’universo Nhl. Certo, una squadra sarebbe comunque sempre presente perché dalla fine degli anni ’90 pattinano i Remparts, i bastioni o baluardi data la natura fortificata della città, appartenenti ad una delle tre major junior canadesi, ma non se ne trova grande traccia. Al contrario, tutti i negozi del centro specializzati nel piazzare souvenir o anche semplicemente per pura solidarietà patriottica mostrano in vetrina magliette e merchandising appartenenti ai Nordiques coi classici colori blu, rosso e bianco guarda caso, cui la gente ancora è affezionata. Non siamo ai livelli della sorella maggiore Montreal, dove gli Habs sono venerati alla stregua di una religione, ma anche per le strade di questa perla del Nord America non è raro vedere ragazzi cimentarsi in partitelle improvvisate di hockey pure d’estate, nella piazzetta antistante ad una chiesa. Pattini a rotelle, bastoni, una pallina arancione al posto del puck e la partita è servita, come ho visto fare in altre innumerevoli occasioni, dai campi dispersi tra i gangli metropolitani di Toronto alle invidiabilissime sfide lungo l’oceano sulle spiagge di Vancouver.

 
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Pubblicato da su 30 luglio 2011 in Hockey, Sport & Cultura

 

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Canada Terra d’Hockey II

A Toronto durante l’estate gli sport sono presenti in massa: seppur la stagione sia ferma l’hockey, immancabile dato che la città custodisce anche l’Hall of Fame, ma anche baseball, basket e soccer. La Major League Soccer si è insediata pure qui, contando probabilmente sul supporto della numerosa comunità latina. Quando non si manifestano impedimenti atmosferici la domenica non è raro vedere i parchi cittadini dei quartieri popolari disseminati di improvvisate partitelle di calcio che spodestano dal verde i quattro giocatori di baseball arrivati lì per caso. Ti avvicini un attimo e l’idioma parlato è lo stesso del tango, della cordigliera andina; difficilmente si va sopra l’equatore per stabilire la nazionalità dei partecipanti. A downtown lo sport è presente, ma con moderazione: le arene di gioco sono tutte in prossimità del lungo lago, dalla Rogers Arena all’Air Canada Center, mentre chi ottiene qualche cartellone pubblicitario extra sono i Blue Jays del baseball perché è bella stagione e non vanno così malaccio. Ci sono anche i Raptors del nostro Bargnani, ma del romano ci sono poche tracce, del resto la squadra annaspa in acque profonde o per dirla meglio giace sul fondale della classifica come un antico veliero pirata da un paio di stagioni: appena fuori dalla mall, il centro commerciale su cui fa perno la città, gli viene preferita una gigantografia di Cristiano Ronaldo, orgoglio lusitano nel mondo, che posa con lo sguardo truce ed in mutande per una linea di abbigliamento. Intimo, suppongo. Nella stagione invernale all’Air Canada Center, il palazzetto dei Raptors, andrebbero forte anche i Maple Leafs, la squadra dello sport nazionale, che però nonostante il glorioso passato e la mai sopita rivalità coi Canadiens di Montreal, è da qualche tempo che non vanta una formazione all’altezza della fama e soprattutto delle aspettative. In generale non è che alle altre formazioni canadesi vada molto meglio: Canucks a parte (che han raggiunto sì la finale, ma generato una psicosi collettiva perdendola nel peggiore dei modi) solo gli appena citati Canadiens han raggiunto i playoffs, mentre tutte le altre han inghiottito la polvere chiudendo pure ultimi e con abbondante distacco nel caso degli Edmonton Oilers. Una delle squadra che han chiuso la stagione senza infamia né lode son stati i Senators di Ottawa, che pensata come trait d’union tra le due comunità anglofona e francofona secondo me ne è diventata simbolo della separazione. La capitale sorge sulla riva destra del fiume omonimo, nell’Ontario: una volta valicato il guado si posa piede in Quebec, e la città di riferimento muta nome diventando Gatineau, o Hull a seconda di chi parteggiate. Anche loro dotati della squadra di hockey naturalmente, che però milita nella Quebec Hockey League. Sul territorio canadese infatti son presenti sei franchigie appartenenti alla Nhl, sette con il ritorno di Winnipeg dalla prossima stagione, ma esiste anche la Canada Hockey League, un’organizzazione ad ombrello composta da tre branchie che si suddividono per aree geografiche: la Western Hockey League, l’Ontario Hockey League ed appunto quella Quebecoise, che sono le principali leghe major junior, ovvero dedicate ai ragazzi che vanno tra i 15 ed i 20 anni. Dei grandi bacini in cui i giovanotti si fanno le ossa e deliziano il palato mai sazio dello spettatore canadese in attesa di rendersi eleggibili per l’hockey che conta, o meglio quello remunerativo, i soldi veri. Le leghe sono nate a metà degli anni ’70 ed oggi contengono quasi sessanta squadre; la loro fama di laboratorio di produzione di stelline capaci col tempo di divenire campioni affermati è tale che diversi giocatori europei con ambizioni di Nhl decidono di fare il salto in anticipo venendo a giocare in una delle tre leghe per una o due stagioni. Sono presenti anche squadre americane, perché della lega dell’Ontario fanno parte anche due team del Michigan e uno della Pennsylvania, mentre in quella occidentale esiste un’intera divisione statunitense con formazioni provenienti da Washington ed Oregon. Per quanto riguarda gli stati canadesi, quelli almeno un po’ abitati, son tutti rappresentati: la lega occidentale gravita attorno alla British Columbia ma contiene formazioni provenienti dagli stati centrali (Alberta, Saskatchewan,Manitoba), l’Ontario ha una sua lega esclusiva (tutta concentrata attorno ai Grandi Laghi) mentre le lega facente capo al Quebec convoglia anche gli stati orientali di Nuova Scozia, New Brunswick e l’Isola del Principe Edoardo. Da quest’ultima son passati praticamente tutti i grandi giocatori di origine francofona, come Mario Lemieux o l’imbattibile portiere Patrick Roy, mentre inutile dirlo, in quella dell’Ontario ha militato anche il più grande di tutti, lasciando il record di punti per un esordiente ancora intatto come marchio distintivo.

 
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Pubblicato da su 28 luglio 2011 in Hockey

 

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Canada terra d’Hockey

Ho parlato col mio amico Andrew in questi giorni. Lui è di origini cipriote ma Baghdatis neanche sa chi sia. Andrew vive a Vancouver ed era parecchio sconsolato per via della sconfitta degli amati Canucks e la seguente babele scoppiata in città. La squadra questa stagione festeggiava i 40 anni di vita, essendo stata fondata nel 1970, prima che l’Nhl iniziasse ogni angolo della città era tappezzato dalle immagini dei giocatori e la spinta affinché riuscissero a conquistare la Stanley Cup per la prima volta nella loro storia era molto forte. Invece il sogno si è spento sul più bello: una stagione regolare fantastica, playoffs col brivido ma finale raggiunta, serie che arriva fino alla settima partita in cui tutto si decide, vita o morte, e purtroppo ai canadesi è toccata la seconda. Un colpo bello duro da incassare per una nazione che respira hockey dal mattino alla sera e ne fa il fulcro delle discussioni sportive ovunque si trovi, al bar, per strada o davanti alla classica tavola familiare imbandita domenicale. La passione che trasudano per lo sport sul ghiaccio è paragonabile a quella nostrana per il pallone, quando ti trovi là anche a malavoglia qualche nozione la apprendi per proprietà transitiva o perché in qualche modo ti fai conquistare dalla passione collettiva. Questo periodo però era importante anche per un altro paio di ragioni: finita una stagione ci si proietta immediatamente verso la successiva, ed il primo passo consiste nel Draft, la scelta dei migliori giovani prospetti mondiali smaniosi di entrare a far parte della Nhl firmando il contratto che gli cambierà la vita. Si tratta sempre di un momento molto particolare, dove vige l’incertezza ed in fondo la sicurezza totale che il tal giocatore si riveli un vero campione come sperato e non una clamorosa sola non la si ha mai. La difficoltà di scegliere sta proprio in questo, nel dover scommettere e puntare su dei giovani sbarbatelli, sebbene molti di loro abbiano già dei fisici che catalogare come massicci sarebbe un eufemismo, senza alcuna controprova. Contano fortuna e l’occhi lungo degli osservatori, oltre ai mille ragionamenti fatti a monte dalle dirigenze sul versante tecnico prima ed economico poi, o viceversa a seconda delle esigenze societarie. Sta di fatto che quest’anno la prima chiamata assoluta spettava ad un team canadese, gli Edmonton Oilers, la squadra in cui ha militato per anni il leggendario Wayne Gretzky con cui vinsero quattro titoli negli anni ’80. Tempi d’oro svaniti ormai da tempo però, perché la squadra nell’ultima stagione è stata nettamente la più scalcinata della lega e conquistandosi l’ultimo posto si è aggiudicata il diritto di scegliere per prima alla lotteria. Il sistema di pesi e contrappesi ideato negli sport americani per garantire un sostanziale equilibrio tra le varie squadre, o quantomeno garantire il ricambio al vertice tra le stesse. Gettando un occhio al lungo periodo, onestamente funziona. Il domandone che girava nei corridoi era sempre lo stesso: chi avrebbero selezionato col numero uno gli Oilers? La squadra è molto giovane ed in fase di ricostruzione da un paio di annetti, ma quale potrebbe essere l’addizione giusta, il ragazzo che può garantire un effettivo salto di qualità? E soprattutto, dovrà essere canadese nevvero? Tranquillizzando tutti, canadese è stato, Ryan Nugent-Hopkins, bel faccino pulito e primo giocatore selezionato con la numero 1 proveniente dalla British Columbia. Strano come particolare, considerato che lo stato sul Pacifico in passato ha sfornato fior di giocatori. I figli dello stato della foglia d’acero l’han fatta da padrone come è quasi sempre lecito aspettarsi, occupando 15 posizioni delle 30 cui è composto il primo giro. Sugli altri sei meglio eclissare, perché giocandosi in 20 e più per squadra l’hockey non è come la Nba dove di round per chiamare ne esistono solamente due, qui si spingono fino al settimo e tener conto di tutti i nomi fatti diventa impresa impegnativa. Ovviamente di qui a pochi anni molti dei ragazzi scelti nelle prime posizioni verranno dimenticati o saranno onesti mestieranti in una delle trenta franchigie, mentre alcuni illustri sconosciuti selezionati con numeri improbabili staranno recitando ruoli da protagonista sui più prestigiosi palcoscenici. È così che gira. Oltre al predominio canadese però va segnalata la massiccia presenza svedese: 4 nei primi 10, 6 in totale al primo giro, e l’impressione che di Landeskog e Larsson, pick numero 2 e 4 rispettivamente, sentiremo parlare molto presto perché paiono già pronti per giocare con quelli grandi. Se per gli scandinavi non è un record poco ci manca. Il resto del piatto è stato completato da una sparuta rappresentanza americana, cinque presenze e uno solo nei primi dieci, oltre ad atleti provenienti da stati europei tutti frutti, come Danimarca, Svizzera, Finlandia e Russia, gli ultimi due certamente molto più qualificati dei primi. A contorno della cerimonia poi i soliti scambi che muovono pedine anche significative tra le squadre, ma soprattutto una notizia già nell’aria da molto tempo ma che i canadesi aspettavano divenisse ufficiale: ritorno al futuro per i Winnipeg Jets. La squadra che si era trasferita nel 1996 a Phoenix per difficoltà finanziarie provocando un mezzo lutto nazionale nel Manitoba torna nella sua capitale mantenendo lo stesso nome grazie alla rinuncia degli Atlanta Thrashers, franchigia che non è mai riuscita a riscuotere grande seguito in Georgia (anche perché i risultati son sempre stati modesti) e dunque è stata a sua volta rilocata. Ora le rappresentanti canadesi sono sette, una possibilità in più di riportare a casa la coppa che manca ormai da troppo tempo ai legittimi proprietari. O almeno così si considerano loro.

 
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Pubblicato da su 26 giugno 2011 in Hockey, Sport & Cultura

 

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ESPN – King’s Ransom

Siamo al crepuscolo degli anni ’80 ma all’alba di un episodio che saprà tenere il tempo sospeso molto a lungo. A quei tempi l’hockey era già seguito ma lungi dall’essere l’odierna macchina sforna soldi, anche per quelli che erano gli standard d’oltreoceano dove la follia per lo sport del ghiaccio era circoscritta al Canada e come logica vorrebbe alle zone fredde del continente. Quel decennio aveva anche il suo dominatore come spesso accade negli sport, che vivono di cicli, epoche e figure che sovrastano tutte le altre grazie al loro immenso talento cristallino. Ancora oggi per chi ha qualche reminiscenza dei tempi andati e poche nozioni sull’attuale dire hockey equivaleva a nominare Wayne Gretzky, il giocatore più forte di sempre e senza troppa concorrenza, allargando il campo uno degli sportivi più noti di tutti i tempi anche per chi una stecca non sa nemmeno che forma abbia. Gretzky da bravo figlio canadese praticava lo sport nazionale già da quand’era pargoletto, anche se sul ghiaccio imberbe non lo è mai stato. Sempre fenomenale, sempre primo fra tutti. Non ancora maggiorenne debutta tra i professionisti e bastano una manciata di partite perché gli Edmonton Oilers lo acquistino senza pensarci due volte. Inizia la leggenda di colui che ogni anno veniva eletto miglior giocatore dell’Nhl, di quello che stabilirà ogni tipo di record che ancora oggi si dubita potranno essere battuti. Sotto la sua leadership gli Oilers raggiungono cinque volte le finali di Stanley Cup, aggiudicandosela quattro volte. L’ultima nel 1988. Per Edmonton l’hockey è tutto, l’unica passione, distrazione in una città che tolto il freddo pungente e le raffinerie di petrolio offre poco altro. Il palazzo dello sport è come una grande famiglia, i tifosi son sempre gli stessi, la squadra amatissima e ovviamente lui, il figliol prodigo, adorato tra gli adorati, anche quando si sposa con l’attrice Janet Jones. Il suo contratto però sta andando in scadenza, ed il proprietario Pocklington ha due scelte: o il rinnovo o la trade, per non rischiare di perderlo a zero. Non proferiamo eresie, quando hai in squadra The Greatest One apri il salvadanaio e gli dai quanto chiede, tanto li merita a prescindere. Invece Pocklingotn tentenna: Gretzky vuole davvero tanti soldi, il mercato di Edmonton non è enorme e da Los Angeles arriva un’offerta di Jerry Buss che spalleggiava il proprietario dei Kings, Bruce McNall. Le parti iniziano a parlare in gran segreto, il giocatore non vorrebbe andarsene ma l’idea che la sua permanenza in squadra sia stata messa in dubbio gli rode non poco. Ad L.A. poi i soldi che lui sente di meritare arriverebbero per davvero. 19 agosto 1988, l’epilogo: Gretzky dirottato ai Kings in cambio di 15 milioni di dollari americani (18 canadesi, all’epoca davvero tanti), cinque diritti di scelta al draft ed un paio di giocatori. La trade del secolo che lascia attonito il mondo dell’hockey ed il Canada: durante la conferenza stampa Gretzky bofonchia solo poche parole in preda alla commozione. Ad Edmonton i tifosi sono in subbuglio, all’incredulità fa presto posto lo sgomento, la rabbia, vengono trovati tutti i possibili colpevoli: la fame di soldi della proprietà, i luccichii di Los Angeles, la aspirazioni della moglie. Il campione però non viene mai toccato, tanto si è instillato profondamente nei loro cuori, e lo mostreranno due mesi dopo, quando ad ottobre i Kings faranno visita agli Oilers: il pre-partita è una stanging ovation continua per il ragazzo canadese cha tanti successi aveva mietuto in Alberta. A Los Angeles invece l’arrivo di Gretzky è un fulmine che sconquassa l’intero panorama sportivo americano: con il suo avvento anche la California scopre l’hockey, l’Nhl aumenta il suo seguito ed inizierà ad espandersi, portando il numero di squadre da 21 alle 30 attuali. Di queste, tre sono californiane. Nella città del cinema l’arrivo di una stella tanto luminosa offusca le altre, che fanno la fila per andare a vederlo: anche gente che di hockey poco o nulla sapeva prenota abbonamenti annuali, i bimbi iniziano a praticare quello strano sport, si iniziano a vedere magliette e cappellini dei Kings per le strade. Fosse rimasto ad Edmonton Gretzky avrebbe vinto ancora 3 o 4 titoli probabilmente, con la sua scelta ha aumentato la visibilità dell’hockey. Avrà mai rimpianti? Dura sapere la verità.

 
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Pubblicato da su 4 giugno 2011 in ESPN 30 on 30

 

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Nhl – Ultimo Atto

Siamo alla resa dei conti finale, ultima serie in programma prima di assegnare la Stanley Cup. A disputarsela come spesso accade sul ghiaccio dove vige una certa alternanza due team che poco avevano sconquassato negli anni recenti. Vancouver e Boston, Canada e Stati Uniti, due città con grandi tradizioni hockeistiche e animate da spontanea passione che alimenterà il fuoco della sfida. Entrambe sognavano l’evento da anni, non essendo esattamente clienti abituali delle Finals in epoca moderna: in British Columbia ci riapprodano dopo 17 anni e comunque non l’hanno mai portata a casa quindi alla terza occasione cercheranno di assaporarla, in Massachusetts addirittura han dovuto attendere 21 anni e così come i rivali in quell’occasione fu sconfitta. L’ultimo sorriso risale al 1972, preistoria per uno dei sei membri originali che fondarono la Nhl. Sarà guerra senza quartiere dunque e spettacolo come sempre, chiunque si fregerà del titolo di campione potrà dire di esserselo meritato, perché arrivare sin qua non è stato semplice. Se nei playoffs delle 14 serie disputate finora 6 sono terminate alla settima, vuol dire che c’è stato un minimo di lotta o no? Di queste una ha visto protagonisti i Canucks, che han tentato di suicidarsi contro i campioni di Chicago facendosi rimontare avanti 3-0, Boston non paga se ne è concesse due, Montreal al primo turno e Tampa appunto in finale di conference. La serie è stata spigolosa, molto combattuta, con alcune partite incredibili come quando i Bolts han vinto 5-3 ribaltando lo 0-3 iniziale. Forse la squadra della Florida ha un po’ mancato l’appuntamento decisivo dove Boston l’ha spuntata 1-0 grazie ad un goal di Horton, in cui il proscenio è stato più dei portieri, perfetto Tim Thomas e quasi Roloson che a 41 anni ha avuto l’unica sbavatura sulla rete incassata. Proprio Thomas coi suoi splendidi playoffs è la stella di una squadra che non ha nomi di grido ma tanti ottimi giocatori (da Lucic a Marchand, da Bergeron a Recchi), sempre più spesso l’identikit di una squadra che porta a casa la coppa. Ottimi elementi li vanta pure Vancouver, ma dovrebbe avere pure le stelle, ossia i gemelli Sedin che hanno cominciato in sordina la post season ma sono cresciuti gradualmente portando qualità e continuità di prestazioni. Non è un caso se Henrik Sedin è il leader nei punti di questi playoffs. Con gli Sharks hanno espresso un buon hockey con la solita capacità di trovarsi sul ghiaccio in modo automatico, ben coadiuvati dai compagni Bieksa, Kesler, Burrows, Edler e via dicendo. Il punteggio finale della serie, 4-1 può sembrare menzognero, ma nonostante la fatica Vancouver ha saputo giocare bene i momenti chiave delle partite domando la seconda forza ad ovest. Anche in gara 5, persa nelle due serie precedenti, dove erano sotto 1-0 fino a una manciata di secondi dalla fine: solito assedio e azione incredibile col disco che causa rimbalzo anomalo sulla balaustra viene perso di vista da tutti quanti, finisce sulla stecca di Bieksa che pronto infila Niemi dalla distanza per il pari. Gara acciuffata in extremis e rete della qualificazione che arriverà dopo un doppio overtime, quasi 40 minuti senza segnare. Gare così non possono che gasarti ed aumentare la tua fiducia, se poi i due svedesi progrediscono ancora sono solo buone notizie. Che dire degli sconfitti: a San Jose sono mancati un po’ gli uomini di punta Pavelski, Thornton e Marleau, mentre di Tampa abbiam già detto, ha dato tutto quello che aveva arrendendosi ad un avversario che sembrava avere quella virgola in più. Bellissima comunque la loro stagione. Ora la finale, dove i Canucks partono con un lieve vantaggio nel pronostico, e nell’hockey sempre meglio trovarsi nella posizione di Boston. Mercoledì si apriranno le danze e ne sapremo di più. Io tifavo per una finale tutta canadese, una delle due ha saputo raggiungerla mentre i Canadiens si sono inchinati alla seconda finalista. Tanta roba comunque. Vedremo se come sperano a nord degli States la Stanley Cup dopo 18 anni (sempre i Canadiens) è pronta per tornare alla sua vera casa.

 
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Pubblicato da su 30 Maggio 2011 in Hockey

 

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Nhl – Il gruppo si assottiglia

Ai quattro angoli del continente. Singolare coincidenza, ma le semifinaliste di quest’anno in Nhl sono dislocate proprio negli spigoli del quadrilatero statunitense, o almeno lo sono con un poco di immaginazione. Da una parte Boston e Tampa Bay, dall’altra Vancouver, silenzio non fategli sapere che sono stati associati ai cugini yankee, e San Jose, California tendente al basso anche se non quanto la città degli angeli. La sorpresa? Piuttosto facile. Sapere che Tampa si trova in Florida, già non è da tutti perché altre sono le città in voga nello staterello dei caimani. Pensare che poi abbiano pure una squadra di hockey, che ci azzecca come un pinguino al Polo Nord, ancora più arduo. Eppure i Lighting sono la rivelazione dei playoffs, e volendo osare una considerazione a più ampio respiro anche della stagione, se è vero che nelle ultime tre avevano languito nei piani meno nobili della classifica, mancando regolarmente l’accesso al post stagione. Cosa è successo? Semplicemente, si è deciso di cambiare tutto quanto, rivoluzione di velluto come anche qui in Europa hanno conosciuto su portata leggermente più vasta: via il vecchio dentro il nuovo, tutto in punta di piedi. Nuovo proprietario, nuovo general manager, nuovo coach e dulcis in fondo, anche nuovi giocatori. Non tantissimi a dire il vero, ma gli innesti giusti. Evidentemente giusti, perché dopo un rodaggio di alcuni mesi le cose hanno cominciato a girare bene e la controprova si è avuta nei turni di playoffs: passata la menomata ma comunque temibile Pittsburgh in sette match, asfaltati i favoriti Capitals con un secco 4-0, arrivederci potete rientrare a Washington per godervi le vacanze anticipate. I giocatori di Tampa erano quelli che incassavano le media goal più alta di tutti, ma in estate gli avvicendamenti: Jeff Vinik subentra alla proprietà, il monumento dei Detroit Red Wings Steve Yzerman assunto come General Manager, Guy Boucher in panchina. Con gli scambi arrivano due pedine fondamentali: il 41 portiere Dwayne Roloson, una certezza , e l’eclettico difensore Eric Brewer, punti fermi di una difesa solidissima. In generale il nuovo ambiente porta una scossa anche a chi era già presente: nuovo sistema,  convinzioni, motivazioni, fiducia nel progetto che viene iniziato nonostante i normali alti e bassi iniziali. Come afferma Steven Stamkos, uno dei players più rappresentativi, da un anno all’altro è stato il giorno e la notte, e dall’inizio di stagione fino ai playoffs di rotazione a 180° ve n’è stata un’altra. Al momento sono 1-1 contro i Bruins avendo vinto la gara d’apertura in trasferta.

Per la nuda cronaca Boston prima di Tampa Bay si ritrovava faccia a faccia con lo spauracchio Philadelphia, che la scorsa stagione l’aveva battuta rimontando dal punteggio di 0-3: della serie come entrare nella storia del gioco dal lato sbagliato. Stavolta però sarà stata la voglia di rivincita o un venticello differente, pronti via e 4-0 sonante, mini vendetta compiuta perché l’onta del ribaltone non si smaltisce così in fretta.

Ribaltone che si è rischiato anche ad ovest, nella serie che è riuscita ad animare un secondo turno altrimenti scialbo, specie dopo le scintille del primo. Avanti 3-0 San Jose, seppur in partite combattute decise sempre da un solo goal di scarto, gli Sharks si son visti rimontare dalla mai doma Detroit, città che ha fatto registrare il tutto esaurito all’arena per il ventesimo anno di fila ed in cui l’hockey è una piacevole distrazione in un posto che non offre tantissimo altro. I Red Wings però si son fermati sul più bello come aveva fatto Chicago il turno precedente, o volendola vedere dal lato opposto gli Sharks han saputo resistere alla marea e nella tesissima gara 7 l’hanno spuntata davanti al pubblico amico.

Più tranquilla invece la parte alta del tabellone, dove secondo pronostico una lanciata Vancouver è riuscita ad imporsi su Nashville in sei partite pur continuando a non ricevere l’apporto sperato dai Sedin, che un po’ stentano. Buono che non lo fanno gli altri, soprattutto l’osannata terza linea che ha tolto le castagne dal fuoco in più di un’occasione. Ed intanto sono 1-0 sugli Sharks.

Ps: nel frattempo si sarebbero svolti anche i mondiali in Slovacchia, no non quelli juniores, quelli veri. Ha vinto e pure nettamente la Finlandia, impostasi in finale 6-1 su un’altra compagine scandinava, la Svezia. Nelle terra dei laghi saranno pure solo in 5 milioni, ma diamine pattinare sul ghiaccio è lo sport nazionale ed i risultati lo testimoniano tanto che sodali finnici mi confermano come stiano ancora celebrando. Stessa passione anche per i canadesi, che però si son dovuti inchinare ai russi nei quarti. Il popolo tra i più enigmatici del mondo, almeno a sentire chi li ha conosciuti sul serio, è però riuscito a starsene ai piedi del podio guardando con amarezza i medagliati, che oltre alle due nazionali sopra citate comprendono anche i cechi, sì sempre quelli del velluto in combutta con gli ospitanti dell’evento. Tra l’altro i campioni in carica  (Repubblica Ceca..) hanno forse espresso il miglior hockey della manifestazione, magra consolazione. Alla Nhl delle nazionali e quindi pure delle competizioni a loro riservate non gli è mai fregato un tubazzo preoccupata com’è a vendere il prodotto, e non ha mancato di farlo sapere. Avrebbero snobbato pure le Olimpiadi se non fosse che si disputavano su suolo canadese, ma le leghe professionistiche americane hanno un concetto di sport piuttosto egocentrico e non da oggi, dunque rassegniamoci al peggio. Pure i giocatori provenienti dal campionato d’oltreoceano dopo avendo le 82 gare di stagione sul groppone, senza contare chi aveva partecipato ai playoffs sobbarcandosene altre, tranne rare eccezioni sembravano un po’ svuotati.

 
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Pubblicato da su 18 Maggio 2011 in Hockey

 

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Nhl Wild Bunch

Stanotte scatterà l’ora X anche nel mondo dell’hockey, gioco preferito nella parte del globo sommersa da gelo, neve e ghiaccio per la maggior parte dell’anno. Ora X significa avvio dei playoffs, la cui strutturazione é identica a quella della Nba: due conference, la classica dicotomia tra est ed ovest, otto squadre per parte accoppiate in base ai risultati stagionali e serie al meglio delle sette gare fino a decretare chi avrà l’onore di alzare al cielo la Stanley Cup. La stagione scorsa é stata la volta dei Chicago Blackhawks, ma quest’anno i campioni in carica avranno le mani piene cercando di difendere il titolo, avendo pericolosamente costeggiato il rischio di non qualificarsi nemmeno alla postseason, acciuffando l’ottava ed ultima posizione disponibile solo con un sprint nelle ultime settimane, sintomo che gli equilibri nella lega sono molto sottili. Quello delle partecipanti ai playoffs Nhl può essere considerato a ragione un mucchio selvaggio non solo per lo stile di gioco messo in mostra sul ghiaccio, ma soprattutto per la grande incertezza che aleggia nel dover dare un pronostico sulla vincitrice. D’ora in avanti l’intensità del gioco salirà esponenzialmente di colpi, e nessun risultato, nessuna singola partita potrà essere data per scontata. Più che in altri ambiti l’hockey sa riservare sorprese e verdetti impensabili, anche perché come in tutti gli sport di squadra, e questo lo é più di altri, il talento é solo una delle componenti da considerare, tanto più che va diluito per il numero di giocatori impiegati. In effetti sul ghiaccio pattinano sempre in 5 per squadra (più il portiere of course) e tendenzialmente i più talentuosi sono schierati in prima linea, ma ormai é pensiero comune che la differenza in una serie lunga la fanno quelli che vengono dalla panchina, 2° e soprattutto 3° linea, dunque avere un roster profondo e ben assortito conta molto. Qui pero’ entrano in gioco le regole salariali, per cui “mica si può fare come nel baseball dove gli Yankees si comprano sempre chi vogliono”, parole testuali di diversi fan canadesi, ma bisogna saper costruire una squadra vincente muovendosi con destrezza tra le regole, come le stelle fanno con gli avversari in campo. Da qui il maggiore equilibrio e la presenza di diverse squadre che possono competere per il titolo. Vediamo gli accoppiamenti:

Eastern Conference

1.Washington Capitals – 8. New York Rangers

4. Pittsburgh Penguins – 5. Tampa Bay Lightning

3. Boston Bruins – 6. Montreal Canadiens

2. Philadelphia Flyers – 7. Buffalo Sabres

Western Conference

1.Vancouver Canucks – 8. Chicago Blackhawks

4. Anaheim Ducks – 5. Nashville Predators

3. Detroit Red Wings – 6. Phoenix Coyotes

2. San Jose Sharks – 7. Los Angeles Kings

Tutte le serie saranno combattute, a prescindere da quello che dirà il risultato finale. Quest’anno più che mai sono aperte le scommesse e le pretendenti al trono sembrano essere tante: constatato che il giocatore più forte della lega, il canadese Sidney Crosby che milita a Pittsburgh, è tornato a pattinare dopo l’infortunio che lo ha tenuto fermo per metà stagione ma ancora non si sa se potrà giocare (e dato che anche il russo Malkin è fuori fino al prossimo anno le speranze dei Pinguins sono ridotte e di molto), toccherà al russo Ovechkin cercare di prendere il proscenio portando finalmente i suoi talentuosissimi Capitals fino alle finali. Ad Est però dovranno fronteggiare la concorrenza di Philadelphia, finalista lo scorso anno e intenzionata più che mai a ripresentarsi all’appuntamento conclusivo per portare a compimento quel che è sfuggito lo scorso anno. I Flyers saranno ostacolati dai Sabres che basano tantissimo del loro gioco sul portiere saracinesca Ryan Miller, titolare della nazionale a stelle e strisce argento olimpico a Vancouver. L’ultimo accoppiamento vede opposti due team storici della lega, presenti tra i sei originali che la composero. Boston ha il vantaggio del fattore campo e viene da una stagione solida, ma gli Habs proveranno a ripetere la grande cavalcata dello scorso anno, quando entrando con l’ottava moneta eliminarono in sette partite prima i Capitals e poi i Penguins, forse le due squadre favorite, uscendo di scena in semifinale contro i Flyers. Ad Ovest invece Vancouver spera che questa possa essere l’annata buona dopo una stagione regolare fantastica e delega ai gemelli Sedin il compito di trascinarli fino alle finali, ma già il primo turno è ostico. Altre contenders saranno San Jose, che ha cominciato la stagione a fari spenti ma alla lunga è uscita prepotentemente e ora sembra in gran forma con in più rispetto all’anno passato la sicurezza del portiere, il finlandese Niemi reduce dal titolo con Chicago, e Detroit. I Red Wings sono squadra sempre temibile, ricca di nomi di pedigree come Modano e Lindstrom, entrambi quarantenni ma ancora temibili, ed han raggiunto la finale 2 volte negli ultimi 3 anni. A sfidarli nel primo turno saranno i Coyotes, squadra molto solida difensivamente ma senza nessun grande attaccante e che dunque potrebbe faticare. L’ultima sfida è quella tra Anaheim e Nashville: i primi proveranno ad andare nuovamente in fondo e vincere la Stanley Cup sorprendendo tutti, come nel 2007. I secondi proveranno finalmente a passare un turno di playoffs, cui partecipano con una certa costanza da anni, per la prima volta nella loro storia. Chi scrive ha una certa simpatia canadese derivata da esperienze personali, dunque tiferà per una finale tutta intinta nello sciroppo d’acero tra Canucks e Canadiens, ma resta più una speranza. Comunque vada, sarà una battaglia. Da mucchio selvaggio.

 
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Pubblicato da su 13 aprile 2011 in Hockey

 

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Profili 4.I Gemelli Sedin

Un’altra stagione regolare Nhl si è conclusa oggi, una spicciolata di ore in attesa febbrile e poi scatteranno i playoffs, incerti come sempre nella lega di hockey più ricca di talento del mondo, tanto incerta che i campioni in carica, i Chicago Blackhawks, hanno agganciato la post-season con un piccolo miracolo e partiranno con la testa di serie più bassa ad ovest andando subito a cozzare contro quella che in questi mesi si è rivelata essere la corazzata della lega, i Vancouver Canucks. I canadesi hanno terminato le 82 gare di stagione vincendone più di tutti, 54, e perdendone meno, solo 19, collezionando la bellezza di 117 punti, primi con distacco come il Merckx dei bei tempi. Merito della straordinaria annata che cade in concomitanza con il 40° anniversario dalla fondazione del team, evento celebrato in città con una qual certa enfasi, va dato molto alla coppia d’oro dell’hockey, i gemelli più famosi di Svezia, Henrik e Daniel Sedin. I due sono omozigoti e condividono tutto da sempre, anche i riconoscimenti individuali che spesso ricevono ex-equo. A separarli forse solo la posizione sul ghiaccio e lo stile di gioco: più passatore Henrik, maggior finalizzatore Daniel; in entrambi i casi, macchine da punti come pochi altri, tanto che han concluso al primo (il che significa secondo Art Ross Trophy consecutivo per il più anziano dei gemelli) e quarto posto della classifica generale dei punti totali, ottenuti sommando i goal e gli assist. In carriera han realizzato quasi gli stessi punti: quasi, perché da buon fratello maggiore, seppur di soli sei minuti, Henrik ne ha totalizzato qualcuno in più. Averli in squadra assieme, impagabile. Il loro modo di giocare in simbiosi ormai è celebrato in tutti i circoli Nhl, tanto che a volte il dubbio che siano telepatici pare legittimo. I due pattinano assieme da una vita intera, conoscono l’altro meglio di loro stessi e si cercano continuamente, trovandosi spessissimo con passaggi no-look, che indicano chiaramente come sappiano sempre dove si trova l’altro sul ghiaccio. Col passare degli anni inoltre da ragazzi intelligenti quali sono han lavorato molto sui loro difetti e ampliato le loro abilità, arrivando a diventare ancora più pericolosi. Non è un caso che quest’anno Henrik abbia vinto la classifica degli assist ma Daniel sia arrivato terzo, piazzandosi invece quarto a pari merito col compagno di squadra Kessler in quella dei goal. Indizi di grande completezza. Dato il loro modo di giocare corretto, pulito, ma volendo esplorare il lato oscuro della luna anche troppo morbido per una lega di duri, all’inizio della loro carriera americana sono stati ribattezzati malignamente “le sorelle Sedin” e tacciati di non essere abbastanza fisici. Ancora oggi si pensa che soffrano i contatti, che possa essere un modo per estrometterli dalla gara, ma è pur vero che grazie anche alla loro correttezza si sono costruiti uno status per cui sono visti come intoccabili e cercare spedizioni intimidatorie su uno dei due è caldamente sconsigliato, dato che ogni squadra vanta tra le proprie fila dei bodyguards deputati a proteggere, ma soprattutto vendicare le ruvidezze subite dalle proprie star, scatenandosi sull’aggressore come una muta di cani sulla malcapitata volpe. I Sedin però conoscendo la loro debolezza han saputo migliorare anche questo aspetto del loro gioco, irrobustendo la struttura fisica e non tirandosi indietro di fronte alle sporadiche risse in cui sono coinvolti. Una vita intera dedicata all’incandescente passione per l’hockey, iniziata in terra scandinava dove a soli sedici anni riuscirono ad ottenere il primo contratto professionistico per il Modo Hockey, squadra della loro città natale, Örnsköldsvik. Giocano nella stessa linea, cioè sono contemporaneamente sul ghiaccio solo da due anni, da quando cioè Daniel ha scelto di non giocare più centro come il fratello ma spostarsi al ruolo di ala sinistra. Il talento espresso è abbacinante, e di anni ne servono solamente altri due perché i gemelli vangano premiati come giocatori dell’anno in Svezia e naturalmente considerati interessantissimi prospetti per il draft Nhl, dove diversi sopraccigli si sono alzati vedendo la coppia dai capelli rossi. Siamo nel 1999, e al Fleet Center di Boston, luogo deputato alla cerimonia delle scelte, i Sedin si presentano con due convinzioni: sono campioni europei juniores in carica ed hanno appena assaporato la prima medaglia con la squadra maggiore conquistando il bronzo nei mondiali norvegesi, ma probabilmente dovranno separare le loro carriere giocando per squadre differenti nonostante le alternative presentategli dal loro agente. Il general manager dei Vancouver Canucks Brian Burke ha però un’idea che gli frulla in testa. I canadesi hanno solamente una scelta al primo giro, seppure alta, la due. Possono accaparrarsene uno, ma se l’altro viene scelto con la prima chiamata il sogno sfuma e comunque difficilmente scendono sotto la quinta. Quando però Atlanta, che ha vinto la lotteria per il sorteggio, lascia trapelare l’interesse per il ceco Patrik Stefan Burke parte con un giro di chiamate che dà il via ad un vorticoso giro di scambi tra giocatori e diritti di scelta. Risultato: Vancouver ottiene la chiamata numero tre e si porta a casa i gemellini in coppia. Genialata di Burke accentuata dal fatto che il ceco diventerà una delle bufale più colossali nella storia del draft. Dopo di allora niente rischia più di separare i gemelli dell’hockey, che iniziano a macinare gioco in Canada senza dimenticarsi di rispondere presente alle convocazioni della Svezia per le competizioni internazionali. Con la maglia gialla della nazionale si tolgono la gigantesca soddisfazione di regalare alla loro gente la medaglia d’oro olimpica nel 2006 a Torino, sconfiggendo in finale la Finlandia pur senza recitare il ruolo di protagonisti. Col passare degli anni scalano le posizioni diventando stelle indiscusse della lega, anche se distinguerli resta sempre un dilemma: se è vero che in campo almeno indossano numeri diversi, il 22 Daniel ed il 33 Henrik, e da quest’anno sono riconoscibili anche perché Henrik è diventato capitano, contrassegnato da una C sulla divisa, mentre Daniel è rimasto alternate, ovvero il nostro vice, che sfoggia invece una A sul petto, resta il fatto che persino il loro allenatore ha candidamente ammesso di avere serie difficoltà a riconoscerli durante gli allenamenti. Scherzando si dice che il primo vero marchio di distinzione avverrà quando uno dei due perderà un dente in uno scontro di gioco. Restando nel campo delle ironie a volte si vocifera ci sia un terzo gemello separato alla nascita, l’attore Ben Foster. In realtà i Sedin non han mai fatto mistero nell’aver piacere a restare assieme. Pure durante la stagione del lockout, 2004-05, quando i proprietari abbassarono la saracinesca lasciando l’America senza hockey per un anno, i due decisero di tornare in Svezia nella loro prima squadra, il Modo. Assieme, of course. Sempre assieme hanno gestito tutti i loro contratti, che risultano identici sia sotto il profilo temporale che in quello economico. Ormai da più di un decennio i due svedesi giocano a Vancouver, e quest’anno sperano siano quello buono per coronare il sogno di poter finalmente toccare con mano la Stanley Cup. Negli ultimi anni la squadra si è sempre ben comportata durante la stagione regolare, per poi arenarsi puntualmente sullo scoglio della semifinale di Conference, nelle ultime due occasioni sempre per mano dei Blackhawks. Il destino le pone di fronte l’una all’altra ancora una volta, concedendo ai Canucks l’ennesima chance di poter vendicarsi delle eliminazioni passate. Dopo aver vinto il titolo nella scorsa stagione a Chicago han dovuto rinunciare a qualche elemento importante per questioni di budget, quindi i pronostici potrebbero sorridere ai Sedin, ma mai dare nulla per scontato in una serie di hockey. Dicono che conoscere il proprio doppio porti male. A Vancouver non ne sono così convinti, o almeno lo sperano.

 
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Pubblicato da su 11 aprile 2011 in Personaggi

 

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I nicknames delle squadre americane

Tutte le squadre di tutte le leghe professionistiche nord-americane sono contraddistinte da soprannomi, che son molto di più di semplici nomignoli come potrebbero essere da noi le Rondinelle per identificare i giocatori del Brescia o i Grifoni per quelli del Genoa. Quello che è il nickname diventa a tutti gli effetti il nome della squadra, tanto che nella terminologia comune si sente molto più spesso parlare di Celtics e Lakers per fare un esempio, non delle città di appartenenza. Quali sono le ragioni di questa tradizione? Innanzitutto nello sport americano non esistono gli sponsor come in quello europeo, o meglio sono esistiti nel passato ma son via via scomparsi. In secondo luogo la scelta del nome è spesso una questione geografica, cioè viene scelto un termine che ha a che fare con la città o lo stato in cui si trova la squadra, in modo da renderla più simpatica, accattivante al pubblico che in lei si può riconoscere e supportarla con immediatezza. Ecco quindi che abbiamo i Pittsburgh Steelers (la città è nota per le sue industrie dell’acciaio), i Phoenix Suns, gli Edmonton Oilers o i Seattle Mariners. In ultimo luogo la scelta del nickname ha anche a che fare con pure questioni di mercato e di maggiore o minore vendibilità del marchio: ne sono un esempio i Washington Bullets che noi oggi conosciamo come Wizards. Nel 1997 il mitico proprietario Abe Pollin presentò il restyling della squadra, con modifiche nei colori sociali, nel logo e appunto anche nel nome, ritenuto un po’ troppo violento e sicuramente sconveniente per una franchigia di una delle città col tasso di criminalità più alto d’America. Discorso leggermente differente per gli attuali Houston Astros del baseball così rinominati in onore dell’importanza che riveste la città nel programma di ricerca spaziale: originariamente erano conosciuti come Colt.45s, l’arma che aveva conquistato il west. Ma anche qui si pensò che i riferimenti ad armamenti vari in un paese come gli Stati Uniti non fosse proprio una grande trovata. Da aggiungere come numerosi nomi sono stati scelti attraverso un sondaggio presso gli abitanti della neonata franchigia o tramite un concorso, sempre aperto ai cittadini, per eleggere il nome migliore. Ma se dovessimo compilare una lista dei 10 nomi più belli o interessanti delle squadre americane, quali potrebbero essere? Ecco le mie scelte:

10)  Minnesota Vikings (NFL) : una delle squadre di football più conosciute anche oltreoceano, pur se non particolarmente vincente, entra ufficialmente a far parte della NFL nel 1961. Deve il nome al suo primo general manager, Bert Rose che promosse caldamente il soprannome Vikings, perché rappresentava sia una persona aggressiva con una grande voglia di vincere sia un omaggio alla vasta comunità nordica presente nel nord midwest americano, dove in effetti furono molte le folate migratorie di genti scandinave, tedesche e polacche. Per quanto mi riguarda una pensata molto ben riuscita.

9)      New Jersey Devils (NHL) :  in questo caso non è interessante come si è arrivati al nome ma la storia dello stesso. La squadra cambia nickname nel 1982 dopo che viene rilevata da John McMullen, che la trasferisce in New Jersey dal Colorado, e la scelta del nuovo nome, che viene affidata ad un sondaggio popolare come in molti di questi casi, ricade sul Jersey Devil, figura legata ad una leggenda del ‘700: Mother Leeds, una prostituta o una presunta strega, non voleva più avere figli e maledisse quello che sarebbe stato il 13° (si può capirla..), che quando nacque si trasformò in una creatura demoniaca con tanto di ali e coda e si rifugiò nei boschi del Jersey, dove sopravvive nutrendosi di carne umana e bestiame. Sicuramente il nickname più suggestivo.

8)      St.Louis Cardinals (MLB) : il nome della seconda squadra più vincente del baseball (dietro solo agli irraggiungibili Yankees) richiama l’uccello cardinale, volatile piuttosto comune negli Stati Uniti, quello rosso col becco incrociato, tanto che è l’uccello simbolo di diversi stati. Non del Missouri però dove l’onore è riservato al bluebird. Come spiegare allora il nome? La squadra nasce nel 1882 come Brown Stockings, successivamente abbreviato in Browns e dal 1899 tramutato in Cardinals, che oltre ad identificare il simpatico pennuto ha anche assonanza col colore delle vesti cardinalizie a cui le divise assomigliano. Come tonalità s’intende. Il nome di uccelli caratterizza anche altre squadre del panorama americano (Orioles,Blue Jays).

7)      Utah Jazz (NBA) : in questo caso il nome non è un mistero, dato che la franchigia nasce nel 1974 a New Orleans, culla della musica jazz e non solo. Quando però cinque anni più tardi si decide di trasferirla tra le montagne rocciose a Salt Lake City per motivi finanziari, anche il nome viene mantenuto assieme ai colori. Non è un caso raro negli States (vedasi i Grizzlies o i Lakers..) però mi pare quasi un ossimoro che il Jazz, musica simbolo della cultura afroamericana sia accostato allo Utah, stato per antonomasia dei Mormoni. Anche in patria in effetti non mancarono i malumori.

6)      Kansas City Chiefs (NFL) : qui la faccenda si fa più curiosa perché il nome è una sorta di premio di riconoscenza. Il proprietario Lamar Hunt voleva portare una squadra di football nella sua città natale, Dallas, ma la NFL rifiutò così nel 1960 sempre Hunt fondò una franchigia sempre a Dallas ma appartenente alla AFL, ovviamente in concorrenza con i neonati Cowboys. Dopo solo tre stagioni, peraltro poco esaltanti, ci si accorse però che il mercato di Dallas non era sufficientemente grande per sostenere due team, sicché i Texans, questo il nome originale, furono costretto ad emigrare. Hunt era orientato nell’accettare le offerte di Atlanta o Miami, ma nelle trattative si inserì anche Roe Bartle, il sindaco di Kansas City, che promise di allargare lo stadio municipale e triplicare il prezzo dei biglietti. I suoi sforzi per assicurarsi i Texans vennero premiati e si decise di chiamare la squadra con quello che era il soprannome di Bartle, appunto “The Chief”.

5)      St.Louis Blues (NHL) : probabilmente il nome più romantico di tutti quelli scelti. La squadra nasce nel 1967 come team d’espansione ed il proprietario Sid Salomon Jr. prese ispirazione da una canzone del compositore afroamericano W.C. Handy, St.Louis Blues appunto, che allora come oggi rappresenta un must nel repertorio di ogni buon jazzista che si rispetti. Un omaggio alla musica che ben si adatta alla Porta dell’Ovest, la città dal nome ispirato al re francese Luigi IX cui sono associati i ritmi di ragtime, blues, jazz oltre che nomi di spicco come Chuck Berry o Miles Davis.

4)      Portland Trail Blazers (NBA) : i tracciatori di sentieri. Nome legato alla storia degli Stati Uniti e scelto attraverso un sondaggio deciso dalla società due settimane dopo che la città si era vista assegnare un team d’espansione. Siamo nel 1970, a uscire vincente dalla contesa è il nome Pioneers che però è già usato da un’università locale. La scelta ricade allora sul nome che fa riferimento alla spedizione di Lewis e Clark, il primo vero viaggio di scoperta verso l’inesplorato West voluto dal presidente Jefferson che i due intrapresero partendo da St.Louis in compagnia della famosa indiana Shoshone. I due approdarono in quello che oggi è lo stato dell’Oregon e nella corsa verso il Pacifico passarono anche dove sorge oggi Portland.

3)      Vancouver Canucks (NHL) : seconda squadra della città nata nel 1970, dopo che i Millionaires (poi Maroons) avevano rappresentato la città dal 1911 al 1926 vincendo una Stanley Cup nel 1915. L’origine del nome è chiara, la sua etimologia un po’ meno. Johnny Canuck è un eroe popolare, un taglialegna che rappresenta la personificazione nazionalistica del Canada, un po’ come lo Zio Sam per gli statunitensi di cui infatti viene detto essere un giovane cugino. Il personaggio compare per la prima volta in una striscia di fumetti politici nel lontano 1869. Di lui si dice che nel tempo libero giocasse anche ad hockey, ovviamente. Canuck però è un termine precedente (lo si trova registrato già nel 1835) che nel linguaggio slang indica un cittadino canadese, anche se in passato era riferita ai soli Franco-Canadesi, e la sua incerta etimologia fa comunque riferimento agli uomini che lavoravano nelle foreste.

2)      Baltimore Ravens (NFL) :  i corvi sono la franchigia più giovane di quelle analizzate, sorta addirittura nel 1996 dopo che l’allora proprietario dei Cleveland Browns Art Modell riuscì a portare la squadra nel Maryland dopo una querelle legale che gli impose di fondare una nuova squadra invece che rilocarla semplicemente. Il nome fu scelto ancora una volta da un concorso indetto tra i fan, che scelsero il nome in omaggio alla forse più famosa poesia di Edgar Allan Poe. Il celebre scrittore infatti seppur nativo di Boston trascorse lunghi periodi della sua vita a Baltimora e qui fu anche sepolto dopo la sua morte. Ho trovato molto bello ed originale il tocco letterario.

1)      Pittsburgh Pirates (MLB) : nome che a primo acchito sembra banale ma cela una gustosa storia. Siamo ancora nel diciannovesimo secolo dato che di squadre professionistiche a Pittsburgh ce ne sono già dal 1876, anche se solo sei anni più tardi il team più forte della zona si unì all’American Association come membro fondatore. Allora si chiamavano Alleghenys giocando in una cittadina vicino Pittsburgh (che col tempo verrà assorbita dalla stessa). Nel 1887 passarono alla National League. L’anno successivo i proprietari stabilirono delle regole per il pagamento dei giocatori, i quali si ribellarono e fondarono un’ulteriore lega, la Players’ League che però durò un solo anno. Il fatto è che le tre leghe si ostacolavano a vicenda perdendo denaro, e due delle tre collassarono lasciando liberi diversi giocatori. Due dei Philadelphia Athletics, Bierbauer e Stovey, che erano passati alla Players’ League per un errore degli Athletics non avevano i contratti protetti, dunque Pittsburgh fece loro un’offerta e se li accaparrò. Philadelphia protestò portando il caso al giudizio dell’Arbitration Board, che però si espresse a favore degli Alleghenys. Gli Athletics, sentendosi defraudati dalla decisione, iniziarono a deridere gli avversari interstatali definendoli pirati appunto perché rubavano i giocatori. Siamo nel 1890, il nomignolo prende piede fino a diventare ufficiale. Aneddoto stupendo.

 
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Pubblicato da su 15 marzo 2011 in Sport & Cultura

 

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Sport e Arbitri

Criticare che è preposto a giudicare, chi ha il potere di mettere in pratica le regole del giochino, qualsiasi esso sia, è esercizio piuttosto semplice ed in certi casi anche naturale specie per chi di quel giochino è l’attore principale. Nello sport la categoria arbitrale alcune volte è vituperata e molte altre non è certamente vista di buon occhio. Ma è davvero sempre così? E soprattutto, la situazione è omogenea in tutte le discipline? Innanzitutto sembra corretto operare una prima distinzione tra sport di squadra ed individuali, per due ragioni: nei primi le scelte arbitrali sono più complesse perché la scena che devono giudicare è influenzata da dinamiche e tensioni maggiori ed in larga parte dei casi le loro decisioni possono risultare più incisive. In secondo luogo sono chiamati a gestire dinamiche differenti, perché trovarsi a gestire un gruppo di persone non è certo paragonabile a dover arbitrare il confronto tra due soli atleti o in alcuni caso anche del singolo (dove però sarebbe meglio parlare di giudici e non arbitri e la sfumatura non è di poco conto). Consideriamo allora gli sport di squadra, senza trattarli nella loro totalità ma prendendo spunto da alcuni esempi circostanziati. Dispute tra arbitri e giocatori o panchine possono essere documentate in ogni sport e con i più svariati livelli di intensità, ma quello che conta è più una linea di comportamento generale, e sotto questo punto di vista risaltano in modo piuttosto evidente le differenze che intercorrono tra il calcio e gli altri sport. In negativo s’intende. Nel pallone è come se ci fossero maggiori concessioni o meglio maggior permissivismo perché per concedere qualcosa una certa autorità bisognerebbe anche detenerla. Pare invece che si verifichi il detto secondo cui uno l’autorità ce l’ha finché non è costretto ad esercitarla, dunque meglio dosarne con parsimonia l’uso.

giocatori juventini a "colloquio" con l'arbitro

Il calcio, parere mio, in diverse situazioni vive di un anarchismo probabilmente diffuso o quanto meno tollerato dalle alte sfere, che viene considerato l’alibi perfetto per non pulire la stanza dal marciume ma semplicemente spazzarlo sotto al tappeto. Certi comportamenti che si vedono tra panchine, giocatori in campo e molti degli stessi direttori di gara sono casi se non unici quantomeno rarefatti nel panorama sportivo. Questo anche perché altre discipline sono codificate in modo specifico senza lasciar falle nel sistema, e laddove se ne ravvedano sono capaci a rinnovarsi adattando le regole, migliorandole quando si capisce che non funzionano o possono essere mal interpretate. Soprattutto, nel caso in cui a decidere sia la discrezionalità e la soggettività dell’arbitro, c’è maggiore rispetto per la sua interpretazione. Una questione di atteggiamenti, di valori sportivi  inculcati ed appresi alla base, in sostanza di modus vivendi. Insomma una questione di cultura sportiva, un sottile modo di comportarsi che in realtà affonda le sue radici non solo nello sport ma anche nella società che lo circonda, riflettendone la composizione, le percezioni, i valori. Molto spesso si tratta di un semplice fatto di accettazione di un giudizio, anche quando ci si trova in disaccordo, accettazione che non implica insulti, visi paonazzi, accerchiamenti dell’arbitro stile battuta venatoria alla volpe, sollevamenti popolari, lamentele e scuse pronte, ma semplicemente tabula rasa, ritrovamento della concentrazione e ripresa del gioco, magari traendo motivazioni positive dal fatto. La perdita di lucidità anche a fronte di ingiustizie sportive subite è forse la testimonianza più lampante da parte di un’atleta o di una squadra della mancanza del tassello necessario per essere considerati vincenti o comunque di saper mantenere il controllo sotto pressione, nelle situazioni infuocate, che spesso è la differenza tra chi vince e chi perde. Da aggiungere che se si butta un’occhiata oltreoceano, nelle varie leghe americane, le alzate di cresta vengono prese anche molto più seriamente da chi comanda e conseguentemente trattate. Chi sgarra paga e salato, sia in termini sportivi che pecuniari, e si sa quando si va ad incidere sul portafogli tutti diventano più recettivi, anche se sono milionari. Nella NBA ogni fallo tecnico è accompagnato da una multa ed al sedicesimo scatta la squalifica, il che non si traduce solamente nella perdita di una gara, ma anche del relativo compenso. In soldoni lo stipendio di ogni atleta viene idealmente diviso per il numero di partite della stagione regolare,82 , e per ognuna di esse che il giocatore è costretto a saltare per motivi disciplinari (ultimo caso quello di OJ Mayo di Memphis sospeso dieci partite per uso di sostanze proibite pari a 405 mila dollari andati in fumo) verrà detratta la somma corrispondente dal suo assegno di fine mese. Nel caso dell’anno passato che riguardò Arenas, per esempio si parla non più di migliaia ma milioni di dollari persi dall’ex Agent 0. Il che fa riflettere. In primo luogo l’atleta che se è sveglio mediterà e se intelligente non ripeterà. Ma fa ancor più riflettere come le società non si sognino minimamente di presentare ricorso, come avviene invece in posti di nostra e vostra conoscenza, a volte pure condito da bieca e ripugnante arroganza. Sempre per la stessa politica anni fa Jason Kidd si vide affibbiare 20.000 pezzetti verdi di multa semplicemente per aver additato la terna arbitrale come “topolini ciechi”. Vero, le leghe americane hanno un commissioner che agisce da padre padrone, ma lo fa su mandato dei proprietari delle franchigie quindi la sua autorità è indiscussa. Partendo da questi presupposti è ovvio come anche gli uomini in grigio, propaggine diretta sul campo dell’autorità centrale godano di maggior credito e rispetto, un rispetto che viene guadagnato anche e soprattutto grazie alla preparazione ed al modo in cui molti di loro si pongono nei confronti di giocatori ed allenatori. Arbitri con cui si può dialogare, che danno spiegazioni tecniche delle loro decisioni godono sicuramente di una stima ed un credibilità maggiori. Ognuno insomma è parte inserita di un meccanismo di cui conosce ruoli e regole e le rispetta. Ovviamente non è una macchina oliata perfettamente, ma i problemi o chi dissente sono l’eccezione e non la consuetudine. Si tenga che dissentire non vuole essere considerato atto di lesa maestà anzi è normale e se fatto nei giusti modi può anche rivelarsi costruttivo per situazioni future, ma quei modi giusti sono la chiave della disputa. La gestione dell’arbitro nel rugby, sport a lungo celebrato per il suo alto grado di correttezza e sportività, potrebbe essere d’esempio pur tutti. Il direttore di gara ha controllo assoluto del match, spiega le sue decisioni dal punto di vista tecnico e se vuole effettuare richiami o avvertimenti ai giocatori li richiama personalmente e convoca i capitani delle squadre per la ramanzina. Ovvio che nonostante l’alto tasso di fisicità e dicendolo senza usare giri di parole pure di gran legnate può contare sulla collaborazione delle squadre che incanalano la cattiveria agonistica nel gioco.

..stessa cosa sul ghiaccio

Stesso discorso può essere applicato all’hockey, dove i contatti si sprecano, pure quelli molto duri e volano con regolarità le scazzottate, che paradossalmente sono anche state regolamentate ed approvate: chi decide di intraprenderle si sfoga, sa che pagherà ed il discorso si chiude lì (avvengono casi di giocatori che si rompono la mano in seguito ad una rissa, delle vere volpi). Ma anche sul ghiaccio esiste un certo codice comportamentale che i giocatori tendono a rispettare, prima di tutto  tra loro e poi nei confronti degli ufficiali di gara. Le lamentele che siano più lunghe di cinque parole sono sporadiche e per eventuali proteste o spiegazioni ufficiali l’unico delegato è il capitano o i suoi vice qualora fosse in panchina. Per quanto riguarda gli allenatori la maggior parte di loro non si discosta tanto dalla reincarnazione della sfinge a braccia conserte. Chi siede in panchina nel basket diversamente si lascia spesso andare ad invettive più o meno moderate, ma è anche vero che i migliori sanno recitare bene in questi sfoghi, che vengono quasi programmati a comando in determinati momenti della partita, quando si vuole lanciare un messaggio alla propria squadra o si pensa di alzar la voce fiduciosi di installare il dubbio nel direttore di gara, che potrebbe rivelarsi un vantaggio nel prosieguo della gara. Il discorso è molto più particolareggiato e dettagliato insomma, va forse valutato più nei casi soggettivi che nelle tendenze generali. Però queste esistono, e qualcosa lo stanno comunque a dimostrare. Ogni sport è un mondo a sé, con le sue regole, i suoi usi, costumi e tolleranze, come è vero che lo sono anche gli stati, dunque le sfaccettature possono essere molteplici. Tendenzialmente è più facile attendersi comportamenti poco ortodossi in Grecia o in Italia piuttosto che in Danimarca o Canada, ma anche qui sarebbe troppo semplice scadere nel luogo comune. Non voglio giudicare né accusare, solo esprimere delle opinioni basate su quello che è il mio modo di vedere lo sport, il quale è ovviamente più vicino alle seconde realtà citate piuttosto che alle prime.

 
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Pubblicato da su 13 marzo 2011 in Sport & Cultura

 

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