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Profili 2.Jonathan Edwards

Ci sono record che simboleggiano molto più del freddo intreccio di cifre da cui sono formati. 18.29 è uno di questi. Diciotto metri e ventinove centimetri rappresentano il record mondiale di salto triplo, disciplina forse un po’ snobbata dell’atletica, un record stabilito a Göteborg in una calda giornata estiva, il sette agosto del 1995. Un lunedì per la precisione, e non si tratta di una precisione da poco nel nostro caso, perché teoricamente quel salto potrebbe non essere mai stato effettuato ed il record mai esistito se quella gara si fosse disputata solo ventiquattro ora prima. L’artefice di quel balzo prodigioso che lo ha consegnato alla storia dell’atletica e pardon, parere personale anche dello sport, si chiama Jonathan Edwards ed è inglese, forse un po’ meno british in quanto nativo di Londra e si sa che quelli della capitale sono razza diversa rispetto agli altri isolani. Jonathan è figlio di un pastore anglicano e come ovvio in una famiglia dove l’influenza del padre è molto forte anche lui seguiva rigorosamente i principi della sua fede, principi che portavano a considerare la domenica come giorno sacro da dedicare a Dio, dove dunque era proibita ogni forma di lavoro, anche la partecipazione a competizioni sportive professionistiche. Non di rado il nostro scelse volontariamente di non partecipare a gare che si svolgevano nel giorno festivo cristiano, rinunciando addirittura ai mondiali di Tokyo del 1991, vinti dallo statunitense Kenny Harrison, di cui risentiremo parlare. “Non mi vendo per una medaglia” fu il suo eloquente commento. Solo dopo che ebbe ponderato con attenzione la cosa anche col padre si decise ad essere più flessibile riguardo le partecipazioni alle gare: se Dio gli aveva dato quel talento speciale era perché lui gareggiasse, e così fu. La prima competizione di rilievo che gli si presentava dinanzi dopo la decisione erano i campionati mondiali di Stoccarda del 1993: 17.44 m di misura e medaglia di bronzo al collo dietro solamente all’americano Conley ed al russo Voloshin, risultato di prestigio che lo proiettava verso un’ascesa che da lì in poi sarebbe stata fulminea. Aveva 27 anni all’epoca, ed i prossimi mondiali svedesi distavano solo due anni. Lo stesso anno dei mondiali, quel mitico ’95, lo vide protagonista di altre misure pazzesche, tra cui il quasi irreale 18.43 m conseguito durante la Coppa Europa in Francia, ma ottenuto però con troppo vento a favore e dunque non omologato. La gara che si tenne in terra scandinava fu leggendaria: durante il suo primo salto Edwards fu il primo uomo a superare legalmente, cioè senza l’aiuto di una spinta del vento eccessiva, la barriera dei 18 metri, con un salto di 16 centimetri superiore. Record del mondo of course a suoi stessi danni (la sua misura precedente era 17.98 stabilita a Salamanca l’estate stessa), sorrisi ed applausi dagli spalti, ma non era finita. Quel record durò una ventina di minuti circa. Nel salto successivo si spinse oltre di altri 13 centimetri, gara finita se mai fosse realmente cominciata, chiavi dello stadio in tasca e tutti a casa. Anni dopo dichiarò che quel giorno non pensava di ottenere una misura simile, in quanto quando si era svegliato era piuttosto nervoso in attesa di saltare tanto che per calmarsi aveva giocato a scacchi con Curtis Robb, ottocentista britannico. Non il passatempo più popolare tra gli atleti di qualsiasi sport ipotizzo. Ma come già visto Edwards non aveva comportamenti esattamente assimilabili a quelli della maggioranza. Primo fra tutti il suo modo di saltare, la sua eleganza, la sua tecnica, l’impressione che non stesse realmente facendo il massimo sforzo ma stesse semplicemente librandosi in volo con la stessa leggerezza di un gabbiano. Già, lo stesso gabbiano Jonathan del celebre romanzo di Richard Bach a cui questo atleta è accostabile non solo per il nome in comune: così come il bianco pennuto anche il britannico è diverso dagli altri perché il suo primo desiderio non è mangiare, ma imparare a volare nel migliore dei modi possibili, trovare il volo perfetto. Quel lunedì ci arrivò davvero molto vicino. L’anno successivo arrivarono le Olimpiadi a cui ovviamente l’inglese si avvicinava con tutti i favori del pronostico e dall’altro lato della medaglia tutta la pressione possibile. I Giochi di Barcellona erano stati una delusione, con il solo 16° piazzamento ottenuto nel turno di qualificazione, quelli di Atlanta furono contrassegnati dalla sfida col padrone di casa Kenny Harrison, già il vincitore dei mondiali giapponesi. Edwards arrivava da 22 vittorie consecutive ma come nei migliori thriller fu l’americano che piazzò la zampata nel primo salto ed allungò poi stabilendo il primato olimpico con una prestazione da 18,09 m. Il detentore del record invece dovette salvarsi al terzo salto dopo i due nulli precedenti, e solo al quarto tentativo riuscì a piazzare la misura che lo issò sul secondo gradino del podio. Per l’oro olimpico, la soddisfazione massima per un atleta, dovette aspettare che la fiaccola si spostasse in terra australiana, a Sidney, dove arrivò da campione europeo in carica (oro a Budapest nel ’98). “All’epoca mi sentivo come il miglior golfista senza un Open in bacheca o il miglior tennista senza aver mai vinto uno Slam” dirà in seguito. Falla riempita e consacrazione a uno dei più grandi atleti britannici di sempre, se non il più grande. Passa un altro anno e a Edmonton riuscirà a bissare il titolo mondiale, allargando ulteriormente un palmares favoloso. Si ritira a 37 anni a si dedica alla televisione, diventando commentatore sportivo per la BBC ma partecipando anche a programmi religiosi. Durante la sua carriera Jonathan non aveva mai mancato occasione per ricordare quanto fosse importante la fede ed il suo rapporto con Dio che lo guidava in tutto ciò che faceva, ma una volta abbandonati i campi di atletica qualche dubbio iniziò ad assillarlo, fino a farlo addirittura diventare ateo ed evoluzionista, come ha lui stesso dichiarato in un’intervista del 2010. Non essere più confinato al solo mondo dell’atletica gli ha allargato gli orizzonti e modificato le certezze, le convinzioni, sostiene. Ma non è certo questo che influisce sul come sia stato atleta. Non inganni il volto serafico e sorridente, il fisico normale: Edwards è stato un atleta pazzesco, un all-around già ai tempi del liceo, capace di correre i 100 metri in 10.48 s, di saltare come un cerbiatto, fortissimo in sala pesi dove aveva uno squat personale di 200kg, numero formidabile per un uomo così magro. Il suo record dura ancora oggi, dopo che sono passati 15 anni e ci stiamo appropinquando al 16°. Da quando la misure vennero ufficialmente registrate nel 1912, il record di specialità non è mai durato così a lungo. Jonathan stesso se ne stupisce, convinto che sarebbe stato lui stesso a migliorarlo ulteriormente. Probabilmente la sua generazione aveva più talenti, sostiene, probabilmente al giorno d’oggi l’atletica non attrae più i migliori atleti che sono maggiormente propensi a cimentarsi in altri sport, che reputano più divertenti o remunerativi. Certo ci sono buoni atleti come il portoghese Evora o il brasiliano Gregorio, o anche l’eccentrico connazionale Phillips Idowu, fresco vincitore dei mondiali di Berlino del 2009 e degli europei di Barcellona dell’anno scorso. Buoni atleti, certo, ma nessuno che sia riuscito a fare quell’ultimo gradino che permetterebbe di ragionare su un piano differente. Ma forse un erede c’è, il francese Teddy Tamgho, recentissimo detentore del record indoor con un salto di 17.92 m agli europei di Parigi. Il ragazzo è giovane ed ha stoffa, è allenato da Pedroso e può migliorare eccome, prossima sfida per lui superare la barriera dei 18 metri. Se e quando saprà abbattere quest’ostacolo, allora potrà iniziare a dare la caccia al più grande di sempre, e magari finalmente batterlo un giorno. Il gabbiano è lì che aspetta.

 
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Pubblicato da su 16 marzo 2011 in Personaggi

 

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