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Dignità schiacciata

Lockout ufficiale da un po’ ormai, un altro paio di settimane cancellate, un centinaio di partite fumate e chissà quanti quattrini bruciati. Perché in fondo questa storia stucchevole si riduce a questo, carta verde frusciante, come sempre del resto. Quando la lega si bloccò nel 1999, l’anno seguente al secondo ritiro di Jordan, io già la seguivo. Fondamentalmente gli argomenti sono gli stessi di allora: senza un contratto collettivo, partire non è lontanamente ipotizzabile. Ora però si aggiunge una nuova grana, perché è cambiata la situazione globale che circonda l’Nba. Senza voler fare demagogia, non è tanto la crisi economica, quanto la capillarità che ha raggiunto il mercato Nba e dunque i riscontri negativi in termini di immagine che sono molto più ampliati, perché mentre dodici anni fa al di qua dell’oceano se ne era parlato il giusto al di fuori della cerchia di appassionati e come cadeaux dall’America era arrivato il bidoncino Olowokandi che alla Virtus ricordano ancora con tanto affetto, ora la stessa squadra mirava ad accaparrarsi gli stanchi servigi di Re Kobe, che insisto nel mio pensiero è buono per sollevare tanta polvere ma concretamente dubito avrebbe fatto bene al movimento. E infatti ha mantenuto essere quel che sembrava, una bella bolla di sapone. Che il campionato non inizi insomma, è notizia nota; che non lo faccia per questioni economiche, una motivazione poco sopportabile a molti, anche negli stessi Stati Uniti, che non si dimentichi mai, hanno anche qualche caratteristica positiva: i suoi tifosi per esempio non sono mai resi schiavi dalla dipendenza sportiva. Se un’attrazione c’è benissimo, se manca per i più svariati motivi se ne piange l’assenza giusto un paio di giorni, ed una volta metabolizzata, tanti saluti e dirottamento dell’interesse verso altro lido. Per l’Nba sarebbe una bella mazzata e questo a New York lo sanno bene. Non è in dubbio che l’anno venturo il campionato riacquisterebbe il suo appeal, non immediatamente forse ma il tempo lavoro a favore di chi vuole che la brutta storia odierna sia dimenticata. Il danno però è attuale, e dovesse essere di un solo anno, si rivelerebbe comunque gigantesco. Intanto le trattative continuano infruttuose. Credo di non essere l’unico a chiedersi di cosa mai si potrà discutere per oltre dieci ore filate. Senza giungere a conclusione alcune, beninteso. Da osservatore esterno la cosa mi pare una gran cavolata, perché se hai la volontà di raggiungere un accordo di massima di chiacchere ne servono molte meno: si esternano le due posizioni, si vede dove ci si può venire incontro, i burocrati limeranno i dettagli nelle sedute successive. Nel frattempo la notizia attesa potrebbe essere data, con grande sospiro di sollievo per il mondo baskettaro in generale. Già perché chi è realmente danneggiato dalla manfrina contrattuale, ancora più dei tifosi che comunque possono sempre rivolgere altrove il loro interesse (parere mio, mai rendersi schiavi di nessun evento, tantomeno sportivo), sono tutti coloro che grazie all’universo Nba vivono: pensate a quanta gente richiede la manutenzione ed il funzionamento delle arene di gioco. Senza contare tutta quella baraonda di gente che vi gravita attorno. Loro magari una piccola voce in capitolo gradirebbero averla. Una battaglia tra ricchi insomma, si sapeva. Ma dà fastidio comunque. Parlando con franchezza, le leghe americane sono scatole genera soldi prima che contenitori sportivi, ovvero è lo sport che genera soldi e non il contrario. Di questo ne sono ovviamente consapevole i proprietari miliardari, che altrimenti non si avvicinerebbero al prodotto (non bevetevi la storiella della passione o del capriccio del nababbo, quelli si contano sulla mano di una scimmia), ma pure i giocatori, e ne stiamo avendo la controprova. Sanguisughe del verdone, con qualche eccezione. Su chi sia il vero protagonista credo la questione neanche si ponga, scontato sia chi va in campo. Ma volendo stabilire chi sia il motore, allora il ragionamento andrebbe rivisto. Ognuno si sarà fatto la sua idea. La mia è che i ruoli vadano equamente divisi, perché senza gli uni non ci sarebbe il guadagno della controparte. Se passasse la linea dei proprietari, ovvero che gli introiti vadano redistribuiti per colmare le perdite della maggior parte dei club, questo vorrebbe dire cifre più leggere dipinte sui contratti. Oltretutto se cala l’affluenza e di conseguenza l’incasso totale, anche il salary cap sarebbe da rivedere. Altra bella tegola da gestire per il signor Stern, avvocato che prendendo in mano le redini dell’Nba ha fatto la sua fortuna. E pure quella di tantissimi altri va detto, perché si è dimostrato bravo commissioner. Dispotico, ma capace. Si giocherà, non si giocherà? L’esito potrebbe ricalcare quello del ’99, quando man mano che il tempo passava e lo spettro di un anno perso incalzava alla fine si cedette. La stagione corta sotto molti aspetti sarebbe anche un bene. Aspetti sportivi intendo. Meno partite inutili, un po’ più di garra, gare più accese. Se invece il campionato non s’avrà da fare, assisteremo ad un altro esodo di giocatori in Europa e più marginalmente altrove nel mondo, una seconda ondata. La prima per ora stenta parecchio rispetto alle probabilmente erronee attese, tolti gli europei di ritorno of course. Per quel che mi riguarda, ogni giorno che passa chi si ostina a ripetere che vorrebbe giocare ma concretamente non fa nulla per dimostrarlo, fa autocanestro da tre. Affossando la sua dignità.

 
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Pubblicato da su 30 ottobre 2011 in NBA

 

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Stelle nel deserto

Solo gli uomini di colore possono essere veloci. Tutti i ciclisti sono dopati fino al midollo. Il rugby è uno sport rozzo giocato da gentiluomini. Sono d’accordo se venissero formulate obiezioni sull’ultima affermazione, specie se vi è capitato di vedere qualche (bellissima) partita del mondiale che sta ipnotizzando la Nuova Zelanda. Una partita come Argentina-Scozia credo dovrebbe essere registrata e conservata in una teca da mostrare alle nuove generazioni per far capire loro cosa si intende quando si parla di sport nella sua essenza più pura. Ma veniamo al sodo: Kobe Bryant nel campionato italiano è una bene per il nostro basket. Boiata colossale che se fosse in un tema d’annata non potrebbe avvalersi nemmeno della cerchiatura in blu, umiliazione massima. Come al solito nel nostro orticello fatto di briciole e pochezza si ragiona a slogan, pubblicità, promozione, introiti. Una bella macchinetta oliata per benino che deve produrre tanti soldini in modo da piazzare bei sorrisetti di denti appena sbiancati su faccini tanto puliti. E così son tutti felici. Pane buono per gli allocchi, che ovviamente abbondano più che in una curva di qualsiasi stadio a vostra scelta. Meneghin è già partito in quarta definendo l’idea di Sabatini, patron della Virtus, brillante, geniale, piena di iperboli. Finalmente un presidente vivace, frizzante, che ha idee illuminanti a sufficienza per gettare luce ed interesse sull’ormai opaco ed avvizzito panorama italiano. Ribaltando la lettura della frase, una bella pensata che può distrarre l’attenzione sulle innumerevoli magagne del nostro movimento, una fra tante la famigerata wild card, idea di autentico spirito idiota. Scontato poi che le uniche voci cui venga dato risalto siano quelle favorevoli, in quanto guai a guastare il giocattolino fabbrica soldi. Chiariamo subito: anche io sono favorevole ad iniziative che possano dare un po’ di lustro al basket, soprattutto che possano portare la gente ai palazzetti, i bambini ad appassionarsi al gioco. Ma niente ruote di pavone, niente strilloni di professione per annunciare l’arrivo di un giocatore, forse anche il migliore del pianeta, che se ne viene a giocare una manciata di partite per puro esibizionismo in cambio di una vagonata di soldi che nemmeno svariate carriole sarebbero sufficienti a trasportarli. Sullo stesso filone sono da accostarsi i giocatori che si accasano per qualche mese in squadre europee in attesa che le acque vengano smosse anche in terra americana, o per meglio dire si trovi finalmente l’accordo su come spartire i soldi della torta Nba, un canovaccio che purtroppo ai miei occhi perde smalto ed interesse anno dopo anno, subendo le influenze peggiori dell’affarismo stile USA. Sarò antiquato o ingenuo, ma quel che a me sta più a cuore è il bene del basket, del movimento, che certo non si raggiunge spettacolarizzando il campionato con l’arrivo di un paio di nomi altisonanti, che oltretutto bisogna pure vedere con che spirito si immergerebbero nella temporanea avventura. A me che si faccia grana o meno non importa un fico secco. O meglio solo nella misura che garantisca al basket una sopravvivenza, parola lugubre ed assassina. Stiamo diventando così bravi a curare le apparenze, la facciata della cattedrale, che l’ossessione ci distoglie da quella che è le concretezza, la struttura di fondo. Dietro la facciata, il rischio è di trovare il vuoto. Medesimo canovaccio che si è presentato poche settimane fa con la nazionale agli europei in Lituania: tanti strombazzamenti, dichiarazioni prive di senso logico e impregnate di una bella dose di boria, una vittoria dicasi una sola vittoria contro i giovincelli lettoni e tutti a casupola con le pive nel sacco. Con tanti ringraziamenti al Mago o a 8/8/88 o tutti i teatrali soprannomi che vi balzano in mente. Quel che davvero conterebbe, dal mio punto di vista, è dare uno scheletro alla pallacanestro italiana, allevare nuove generazioni che dovrebbero prendere spunto dal gioco del basket tradizionale, e non (solo) dalle acrobazie, i balzi portentosi, i tiri allo scadere ed i passaggi no-look dietro la schiena. Senza tutto questo, magari produrremmo dei giocatori veri. E non andremmo a fare figure barbine in giro per l’Europa, dove nazionali in teoria ben più modeste di noi ci guardano dall’alto al basso prendendosi pure la libertà di sbeffeggiarci. A dire la verità, pure con qualche buona ragione.

 
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Pubblicato da su 30 settembre 2011 in Basket Europeo

 

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