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Archivi tag: All Blacks

Confesso di aver flirtato..

Con quel meraviglioso sport che è il rugby. Ero ancora imberbe bambinetto delle elementari, ma quel legame che mai pareva essere sbocciato è invece rimasto sotterraneo, coltivato pazientemente per anni fino a quando non è giunto il momento propizio perché sbocciasse. Lo ammetto, è uno sport di cui sono molto più appassionato che competente, e di regole e sottigliezze il rugby è pieno come il basket, dunque un neofita che si approcciasse per le prime volte vedrebbe solo grande agonismo ma capirebbe pochissimo di quel che succede, di cosa è concesso e non è concesso fare a quei trenta energumeni che maltrattano le povere zolle del manto erboso ed ispirano una nemmeno tanto vaga somiglianza con orchi delle fiabe, salvo poi comportarsi come agnellini di fronte all’arbitro, un ometto di mezza età spesso insignificante se rapportato ai quei colossi. Ma tant’è, la rabbia e l’ardore sono totalmente profusi nell’agonismo che la partita richiede da essere praticamente prosciugati per quanto riguarda qualsiasi fase esterna alla stessa. Insomma se si spillano fino alle ultime energie dal corpo per metterle in campo, ben poche ne restano per lamentele e quanto ne segue. Tanto che salvo le solite baruffe tra gentiluomini i casi di risse sono rarissimi, specie a fine partita dove immagino si instauri un mutuo rispetto nei confronti di chi si era picchiato fino a pochi secondi prima. Bene, da poche settimane sono partiti i mondiali in Nuova Zelanda, storica terra in cui pare questo sport abbia messo radici profonde e sentitissime e si irradia in tutto il mondo grazie alla notorietà degli All Blacks, della loro marea nera e soprattutto della loro haka. Anche i primi incontri visti dal sottoscritto assieme al torneo dell’allora cinque nazioni vedevano per protagonista la nazionale della felce argentata. Chissà se ad avere i mondiali in casa finalmente sfateranno la macumba che li vede incontrastati dominatori del ranking salvo poi scivolare sempre su di una buccia di banana nell’occasione principe. Intanto la fase a gironi è praticamente terminata e gli accoppiamenti per i quarti si sono delineati, purtroppo per noi anche stavolta l’Italia cade ad un gradino dal secondo turno, asfaltata dall’Irlanda dopo aver tenuto benissimo botta per un tempo. Ma il rugby è uno sport crudele, essendo fisico non fa sconti, se finisci la benzina paghi e paghi salato perché gli avversari ti azzannano. Un peccato perché al passaggio del turno ci si poteva credere, però considerazione da appassionato e non esperto come già detto, mi pare che il movimento italiano non riesca a crescere, a fare quell’ultimo gradino che lo porti ad appartenere di fatto al gotha mondiale, perché in realtà mi sembra che è da anni ormai che ne siamo ai piedi. Certo, in questi casi l’ultimo tassello è anche il più difficile, perché è uno sport in cui le gerarchie sono molto ben definite, con poche nazionali dei due emisferi a farla sempre da padrone, in sostanza le squadre del Regno Unito più l’Irlanda e gli ex domini britannici dell’emisfero sud. Negli ultimi anni si è aggiunta l’Argentina, ma la squadra di quest’anno, protagonista finora del più bel match della manifestazione che io abbia visto, la sfida alla morte contro gli scozzesi, è un po’ datata e ricambi all’altezza bisogna vedere se ce ne saranno, perché il problema è proprio quello, sfruttare l’exploit di una generazione per far crescere il movimento alle spalle e preparare un serbatoio di giovani talenti adeguato alle nuove ambizioni. Stesso problema che mi sembra affligga anche l’Italia, molto determinata in quanto a naturalizzazioni ma carente nel settore giovanile, per motivi vari che sicuramente esulano dal paragone con sport molto più praticati. Tornando ai mondiali è proprio il nostro girone a cambiare le carte in tavola, con l’Irlanda che battendo i più quotati Wallabies si aggiudica il raggruppamento e produce abbinamenti singolari nel tabellone: da un lato tutte europee,  dall’altro tutto il sud del mondo, così da sapere in anticipo che avremo uno scontro di stili in finale. E se magari Irlanda-Galles non solleticherà i palati più fini, che dire di Inghilterra-Francia o Sud Africa-Australia? I Tutti Neri che si scontreranno contro i Pumas argentini hanno il mio appoggio per la conquista del trofeo finale, perché nonostante siano unanimemente considerati la squadra più forte la particolarità di bucare con puntualità raggelante ogni mondiale ne fa dei perdentoni di successo, e per i secondi, per quelli tristi nelle foto di giubilo io ho sempre avuto un debole. Infine una parola per i commentatori Sky, tutti mossi da una sincera passione per questo sport, molto chiaccheroni ma poche volte a vanvera, sempre pacati e immersi nel clima rugbistico anche nei toni tenuti. Sopra a tutti ovviamente Vittorio Munari, un nome una leggenda, che tranne quando commenta l’Italia e si lascia andare a sanguigni campanilismi ed a un silenzio plumbeo quando i nostri soccombono è la persona che più mi ha insegnato, ed in buona parte anche avvicinato, a questo sport. La sua disamina tecnica è sempre precisa, essenziale, chiara anche a un caprone come me, è bravo ad illustrare le regole e le situazioni di gioco e la miglior interpretazione che ne viene data da arbitro e giocatori, sa spiegare senza essere pedante o noioso anche per un esperto, suppongo, legge bene i momenti della partita. Il tutto condito da una smisurata simpatia fatta di battute fulminanti, spassosi aneddoti, sapiente uso di varie tonalità di voce ed espressioni colorite che mai sconfinano nel volgare. Un totem.

 
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Pubblicato da su 7 ottobre 2011 in Rugby

 

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Profili 5.Carlos Spencer

Esistono nazioni la cui immagine sportiva è inscindibilmente legata ad una disciplina. Lo è l’India per il cricket, la Giamaica per l’atletica o il Brasile per il calcio. La Nuova Zelanda non si esime dall’accostamento: pronunci il suo nome e il pensiero corre veloce al rugby. Lo sport della palla ovale, chiare origini anglosassoni, è praticatissimo sull’isola di Sua Maestà come pure in quelli che furono i domini coloniali britannici a sud dell’equatore, ma l’icona mondiale sono loro, gli All Blacks, la nazionale sfoggiante la felce argentata come simbolo. Di questa selezione, quasi imbattibile nei suoi tour ma che buca immancabilmente l’appuntamento col titolo mondiale fatta eccezione per la prima edizione del 1987, ha fatto parte un istrione a cavallo del passaggio tra i due millenni. Forse ai più, in special modo alle damigelle, sarà rimasto impresso il volto d’angelo di Doug Howlett, ma se anche voi vi ricordate di uno che giocava diverso dagli altri, allora sapete chi è Carlos Spencer. Carlos è il Modigliani del rugby, l’artista sregolato che dipinge tutto a modo suo con stile inconfondibile e anche nelle situazioni delicate prende decisioni avventate che provocano quel brivido alla spina dorsale per cui vale tanto la pena vivere. Se l’obiezione mossa è che non siano tutte scelte prese con criterio, ponderate e che le stesse hanno segnato sanguinose sconfitte o ne abbiano posto i prodromi (vedi palla intercettata da Mortlock e fuga per la vittoria come neanche Pelè e Stallone con prima meta australiana nelle semifinali di Coppa del Mondo 2003, momento scenico poco indicato per errori), allora non avete capito che stiamo argomentando su due piani differenti del gioco: anche i poeti non hanno mai vinto una guerra, pur sapendo descriverla così bene. Qui non siamo alla ricerca del giocatore perfetto, del robot da laboratorio (o da palestra) creato attraverso abile indottrinamento per diventare il migliore. Qui parliamo di chi la gente allo sport la fa avvicinare emozionandola, forse prima ancora divertendola. Spencer è uno di questi, una gemma che con la sua lucentezza attrae a sé anche i profani del rugby (come lo era chi scrive) conquistandoli con la sua fantasia, i passaggi imprevedibili, le sue improvvisazioni al sax, pure con quell’espressione guascona e un po’ spiritata che fa tanto faccia da pizza. Cristallino che per permettersi certe giocate la base tecnica posseduta dev’essere di prim’ordine, condita da quel pizzico di speziato che dà sapore aggiunto. Non a caso il nostro è conosciuto col titolo di King Carlos che suona molto regnante europeo rinascimentale. Nelle sue vene a ben vedere scorre sangue nobile, dettato non dall’appartenenza aristocratica ma all’etnia Maori, gli abitanti originali della Nuova Zelanda, quella che loro ribattezzarono Aotearoa, “la terra della grande nuvola bianca”. Questa appartenenza alle radici della sua terra è la ragione per cui diverse volte prima della gara ha guidato l’haka, la danza rituale dei nativi con licenza di intimidire, onore spettante al più anziano tra i giocatori in campo che vanti origini Maori. Per una decina di incontri ha anche accettato di vestire la maglia dei New Zealand Māori, XV rappresentativo degli autoctoni composto dunque da soli giocatori che abbiano antenati nativi dimostrabili. Nonostante la grande notorietà raggiunta a livello internazionale il suo rapporto con gli All Blacks è stato spesso travagliato, dovendo lottare contro una concorrenza spietata ed agguerritissima per un posto nei quindici. Los, il nomignolo con cui gli piace farsi chiamare, ha sempre dichiarato che per lui non è fondamentale la posizione che ricopre in campo, mediano di apertura o estremo, l’importante è scendere sul terreno piuttosto che fare muffa in panchina, anche se ovviamente la sua inclinazione naturale è indossare il numero 10, quello destinato all’apertura. La controindicazione in materia sta nel fatto che in questo ruolo l’isola che si trova ai nostri antipodi vanta da sempre un’imbarazzante quantità di alternative, tutte qualitative tra l’altro, e il periodo in cui Spencer era all’apice dello splendore non ha fatto differenza, avendo come superbo rivale Andrew Mehrtens, che in più di un’occasione gli è stato preferito grazie anche ad un uso più sapiente del gioco al piede. L’uomo di Levin, cittadina dell’Isola del Nord, inizia ad entrare nel giro della nazionale maggiore appena ventenne, ma per il debutto ufficiale in un test match dovrà aspettare quasi due anni, quando nel 1997 viene schierato a Wellington contro l’Argentina. È la sua occasione per brillare e la partita che mette in mostra parla da sé: l’avversario non sarà dei più probanti visto il roboante punteggio finale, 93 – 8, ma firmarne 33, record per un esordiente kiwi, conditi anche da due mete è senza dubbio un bel biglietto da visita. L’anno d’oro indossando la maglia dei tutti neri però sarà il 2003, quando il coach John Mitchell decide di puntare su di lui facendogli disputare tutte le partite previste, che lo porteranno a guidare la squadra al grande slam nel Tri Nations, classico torneo disputato tra le tre potenze dell’emisfero australe, Wallabies, Springboks e All Blacks appunto. L’anno è lo stesso dei mondiali australiani però, e l’epilogo già conosciuto: sconfitta in semifinale contro i padroni di casa. Nonostante la delusione per l’ennesimo titolo sfuggito ai sempiterni favoriti negli occhi della gente resterà comunque l’immaginifico passaggio no look da sotto le gambe che King Carlos consegnò a Rokocoko spianandogli la strada per la meta contro i sudafricani nei quarti di finale. Ennesima pennellata d’autore, ma dopo il mondiale inizia il rinnovamento della nazionale e lui ne è una vittima. Sempre a quella stagione è legato il terzo titolo ottenuto a livello di club con i Blues di Auckland in quello che allora era ancora il Super 12 (poi diventato Super 14 e attualmente Super Rugby con l’espansione a 15 squadre), campionato tra le migliori squadre del già citato emisfero sud. Nei Blues Spencer trascorre gran parte della carriera, trionfando in due edizioni consecutive, 1996 e 1997 e restandovi sino al 2005. La voglia di mettersi alla prova, la ricerca di nuovi stimoli lo porteranno nel vecchio continente per cimentarsi in una nuova realtà, quella dei Northampton Saints del campionato inglese. Resterà qualche stagione accaparrandosi subito le simpatie dei tifosi, ma quest’anno ha deciso di compiere l’emigrazione opposta tornando alle origini o quasi: ancora Super Rugby ma stavolta non con una rappresentativa della terra natale, bensì i Lions di Johannesburg, Sudafrica. Vedremo cosa saprà ancora regalarci a discapito di un passaporto non più floridissimo. Vai a sentire l’opinione degli appassionati, in particolar modo quella degli appartenenti alla nazione kiwi, e l’aggettivo più ricorrente per descriverlo risulta “entertainer”, intrattenitore ma anche spettacolare, perché dava piacere vedendolo all’opera, anche se magari altri erano i colleghi ritenuti più forti in assoluto perché qualche punto debole lo aveva oltre ai già citati: nel corso degli anni gli è difettata una certa continuità nei calci piazzati, dove non ha mai esibito l’affidabilità del suo successore, quel Daniel Carter diventato recordman di punti neozelandese ed autentica macchina per segnare; i fan poi scherzosamente non gli perdonano alcune réclame pubblicitarie, bollate come ridicole. Ovvio poi che l’acume tattico e la capacità di leggere le pieghe ed i ritmi della partita non siano mai stati una prerogativa di Carlos, ma di questo abbiamo già parlato: lui incarna l’anima pura, selvaggia di questo gioco, la voglia spassionata di attaccare, segnare punti, divertirsi, esprimendo un concetto banale di prendere il rugby per quello che è, un gioco. Per giocatori così una maglia dovrebbe essere disponibile sempre in qualsiasi squadra, a prescindere.

 
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Pubblicato da su 24 aprile 2011 in Personaggi

 

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