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Basket a Disneyland

Azzoppato da un simpatico virus intestinale il fine settimana mi ha visto inchiodato sul divano. Premessa per ammettere che la pausa dell’All Star Game l’ho vista. Almeno finché ho resistito. Località Orlando, Florida, conosciuta nel mondo come sede del più famoso parco divertimenti della Disney. Quella che Phil Jackson durante le finali del 2009 bollò come città di plastica. Le due metà si sposano. In questi casi non si sta parlando di basket reale e nemmeno di partita, termine offensivo per quel che si vede. Espressioni più consone possono essere spettacolo, esibizione, passerella. Il mondo Nba deve pubblicizzarsi, è bravissimo nel farlo, anche se sceglie vie che non mi appartengono. Togliendo i lustrini, i luccichii, le ridondanze, insomma tutto quello che sta attorno, e lasciando il palco ai protagonisti, sarebbe già un’altra cosa. Se poi questi si impegnassero anche assisteremmo a bellissime partite.  Purtroppo a prevalere è il senso dello spettacolo americano, quello che come un’epidemia senza vaccino sta contagiando a livello globale, tutto apparenza e vacua sostanza. La “cosa” del venerdì sarebbe ora di abolirla, inutile proseguire una farsa mascherata che non so nemmeno quanto bene faccia all’Nba stessa. Ascoltando storie e aneddoti di telecronaca rimangono la fantasia anarchica di Rubio, la meccanica di tiro di Irving e segnali positivi da Hayward e Monroe: due così spaesati in quel letamaio corrispondono a possibili giocatori veri in ben altri contesti. Il sabato diviso in tre manifestazioni è risultato lui pure debolissimo. Velo pietoso sullo skills challenge: se ai partecipanti non frega nulla perché dovrebbe a me? Un sorriso me l’ha strappato Parker che almeno è riuscito a polemizzare dopo aver ricevuto il premio. Schiacciate: tutto già fatto, tutto già visto. Se poi portato in scena da simpatici carneadi non interessa proprio a nessuno. Mai stato amante di queste cose, ma l’unica soluzione è portare i vari James, Iguodala, Westbrook, Griffin e compagnia che di schiacciate migliori ne offrono in partita. O chiudere bottega. Tiro da tre: unico interesse guardare la meccanica di tiro di grandi giocatori come Durant o Love. Ma anche questa gara mi è sempre piaciuta poco specie come concetto, in quanto sembra che nel basket i fondamentali che contino siano questi due, schiacciate e tiro da tre. Messaggio molto in voga, lo riconosco. Solo che chi vince dev’essere bravo a fare tutto il resto. I due giorni di attesa insomma sono il solito fiasco. L’All Star Game non risolleva di molto le quotazioni, grazie alla guida di alcuni personaggi è scaduto nella cialtroneria negli ultimi anni. E non si partiva da una base di serietà ed agonismo incredibili, detto tutto. Di trecento giocate ce ne sono una ventina da salvare, singoli colpi di classe o piccoli gesti. Se poi vi bevete la favola dei televenditori (ma pure quelli cartacei) della rimonta finale e della “partita vera” degli ultimi minuti allora la vediamo agli antipodi. Sempre dalla parte di Duncan che chiedeva di essere impiegato il meno possibile. Non bisognava aspettare quest’evento per capire come a Durant riesca tutto con una naturalezza impressionante. Molto interessante il suo rapporto futuro con Westbrook, uno che il palcoscenico se l’è preso con la forza. Mentre nelle grandi accoppiate del passato era chiaro chi fosse il numero uno e chi il secondo violino, qui assistiamo ad un caso anomalo. Nel senso che a mio avviso il numero uno conclamato è Durant, ma a Westbrook bisogna avere il coraggio di spiegarlo. Lui non si sente da meno e bruciando di competitività farà di tutto per essere al livello del compagno di squadra, creando una sorta di leadership a due teste: oltretutto Kevin mi sembra caratterialmente simile a Duncan e non a Bryant, egocentrico che ammette solo subalterni. Il fenicottero dei Thunder è più leader silenzioso, interessatissimo a vincere. Se questa competizione interna alla squadra porterà benefici come dovrebbe o deflagrerà negativamente solo il tempo saprà dirlo. Stigmatizzato il solito atto di simpatia del signor Wade, un cattivo travestito da buono e protetto come la Monna Lisa, una menzione la meritano sia Marc Gasol che Kevin Love, due giocatori veri e molto, molto interessanti in previsione futura. Soprattutto il lungo di Minnesota: miglior rimbalzista delle lega (guardacaso tra i pochissimi ad effettuare un solido tagliafuori), tra i primi marcatori e con quel rilascio dall’arco. Nella terra dei lupi potrebbe arrivare a breve una grande svolta, tenuto conto che Rubio prove alla mano sembra sia stato ben accettato dai compagni.

 
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Pubblicato da su 28 febbraio 2012 in NBA

 

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